Le donne (e non solo) ritornano a occupare le piazze di Ragusa in questa Giornata Internazionale dei Diritti delle Donne 2024. La mobilitazione di oggi, “LOTTO MARZO PER IL LAVORO. EQUO SICURO PAGATO CONTRO IL PATRIARCATO”, ha carattere provinciale ed è stata indetta dalla Rete 25 Novembre, che unisce diverse realtà associative del Ragusano nella prevenzione e nel contrasto alla violenza di genere. Il corteo partirà da Piazza Libertà alle 18 e si muoverà in direzione di Piazza Matteotti, dove si svolgeranno alcune letture e un intervento musicale a cura del duo StraNìa.
il tema scelto per la manifestazione è quello del lavoro femminile, cartina di tornasole del mancato raggiungimento della parità tra i generi nel nostro Paese. Lo dicono chiaramente tutte le statistiche e i rapporti ufficiali: ancora oggi in Italia poco più di una donna su due (55%) ha un lavoro retribuito, con differenze sostanziali tra Nord e Sud. Basti pensare che in Sicilia il numero delle lavoratrici si riduce a una su tre. Dati che precipitano l’Italia in fondo a tutte le classifiche europee.
Il lavoro delle donne è anche più precario, con possibilità di carriera lente e discontinue, e mediamente meno pagato: il divario salariale rispetto ai colleghi maschi si attesta intorno al 10%, con conseguenze anche sul trattamento pensionistico. Le donne sono inoltre fortemente penalizzate dalla nascita dei figli (cosiddetta child penalty) e dalla mancata conciliazione famiglia-lavoro: secondo un’indagine Inapp, “Rapporto plus 2022. Comprendere la complessità del lavoro”, quasi una donna su cinque (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più dopo la gravidanza. La motivazione principale delle intervistate è la conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o licenziamento (29%) e da valutazioni di opportunità e convenienza economica (19%).
Se poi si punta la lente di ingrandimento sul lavoro di cura, o lavoro di riproduzione sociale, che è a tutti gli effetti un lavoro non retribuito, emerge che le persone caregiver sono ancora oggi in grande prevalenza donne. Secondo alcuni dati (OIL 2018), infatti, il lavoro di cura di bambini/e, persone anziane, persone con disabilità e della casa ricade per il 74% sulle donne. Il che significa che le donne vi dedicano mediamente 5 ore e 5 minuti al giorno, mentre gli uomini 1 ora e 48 minuti. Il gap di genere anche in questo caso è estremamene significativo e svantaggia le donne non solo per le limitazioni che ne derivano in ambito lavorativo e di crescita professionale, dovendo il 55% circa delle occupate svolgere di fatto un doppio lavoro, ma anche sotto il profilo della “effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” che dovrebbe essere ugualmente garantita a ogni persona secondo l’art. 3 della Costituzione.
Per il 45% di donne non occupate, quindi in cerca di lavoro o che hanno rinunciato a cercarlo, la questione del lavoro di cura non retribuito diventa cruciale per il raggiungimento dell’indipendenza economica e per gli aspetti legati alla previdenza sociale. Negli anni Settanta le femministe italiane rivendicarono il salario per il lavoro domestico come strumento essenziale per l’autodeterminazione e contro il sessismo dei ruoli di genere tradizionali. Le loro tesi furono adottate anche in altri Paesi europei e negli USA dal femminismo della seconda ondata, ma nel nostro ordinamento non è mai seguito, in questi cinquant’anni, alcun riconoscimento legislativo.
Non si può infine ignorare come la questione dell’indipendenza economica delle donne sia strettamente legata a quella della violenza di genere. Si parla di violenza economica in ambito domestico per riferirsi a tutte quelle forme di “impedimento a conoscere il reddito familiare, avere una carta di credito o un bancomat, usare il proprio denaro e costante controllo su quanto e come si spende” (definizione Istat). L’impossibilità per le donne che non hanno un reddito proprio di uscire dalle mura di casa quando si verificano i primi segnali di violenza è una delle condizioni che rendono possibile l’escalation della violenza di genere.
I dati riportati fotografano una realtà gravemente discriminatoria, ma forniscono una sola dimensione dei fenomeni. Per leggere adeguatamente la complessità del reale occorre uno sguardo intersezionale, capace di cogliere la sovrapposizione e l’intreccio delle diverse forme di oppressione. Questi dati non dicono ad esempio quante delle persone considerate siano anche straniere, o non bianche, impedendo di cogliere altre dimensioni del problema.
Su tutti questi aspetti la mobilitazione di oggi pomeriggio intende richiamare l’attenzione perché l’8 marzo torni ad essere una giornata di riflessione e protesta secondo lo spirito con cui, più di un secolo fa, è nata.