La ventiseiesima edizione del Costaiblea Film Festival si è conclusa ieri al cinema Lumière di Ragusa con un ospite d’eccezione, il pluripremiato regista Emanuele Crialese. Nel corso del pomeriggio sono stati proiettati due dei suoi lungometraggi, Terraferma (2011) e Nuovomondo (2006), poi l’incontro con il regista e la proiezione dell’ultimo film, L’immensità, presentato lo scorso settembre alla Mostra del Cinema di Venezia.
Quello di Crialese è un cinema sospeso tra realtà e visione. Ieri sera, nella lunga chiacchierata con il direttore del festival Vito Zagarrio, il regista romano ne ha tracciato i contorni, a partire dal profondo legame che i suoi film intrattengono con la Sicilia. Nato da genitori siciliani, Crialese ha scoperto il suo attaccamento per l’isola solo da adulto, quando vi è tornato per scrivere Nuovomondo (in parte girato in provincia di Ragusa). Atterrato a Palermo, racconta di essere rimasto colpito dalla luce siciliana e di aver cercato di ricreare quella particolare luce nel suo cinema. In quell’occasione non soltanto scrisse la sceneggiatura di Nuovomondo, che sarebbe dovuto essere il suo secondo lungometraggio, ma girò Respiro (2002), il film che lo portò alla notorietà e che nacque in modo imprevisto dall’innamoramento del regista per Lampedusa.
Interpretato da una bravissima Valeria Golino e da Vincenzo Amato, amico fraterno e attore-icona del regista, Respiro è un’opera di rara bellezza, che può essere considerata una perfetta sintesi della poetica di Crialese. Il suo cinema racconta sempre un’estraneità e uno spaesamento, sia esso quello dei migranti di ieri e di oggi, sia quello di chi si sente straniero nella propria terra e persino tra i propri affetti più cari. Ma forse meglio dire “straniera”, perché nei suoi film sono quasi sempre le donne a incarnare una diversità non compresa e non accolta dal contesto familiare e sociale in cui vivono. Una diversità che viene patologizzata da chi in quel contesto si sente invece normale, per la difficoltà di riconoscerla come forma di resistenza all’appiattimento su un ruolo predefinito e di espressione più autentica di sé. “Chi non esprime un malessere nella società in cui viviamo secondo me non è normale”, ha affermato ieri sera Crialese, chiarendo con una semplice osservazione il suo punto di vista sul concetto di normalità.
Come Valeria Golino in Respiro, anche Penelope Cruz ne L’immensità è una moglie e madre che vive un forte disagio nel mondo che il marito le ha costruito intorno. E anche in quest’ultimo film, che riprende a vent’anni di distanza il discorso avviato da Respiro, c’è una relazione privilegiata tra madre e figli, in particolare con Adri, la figlia più grande che si interroga sulla propria identità di genere e che pensa di essere stata “creata male”, perché non sente di corrispondere al sesso attribuitole alla nascita.
Lo sguardo di Adri, nella meravigliosa interpretazione della giovane esordiente Luana Giuliani, è forse l’espressione più compiuta del cinema di Crialese. Adri osserva il mondo per quello che è, con le sue verità talvolta crudeli, le meschinità e le rigide regole che governano la vita degli adulti, e al tempo stesso dirige lo sguardo all’interno, chiedendosi se sia più importante quello che abbiamo dentro o quello che abbiamo fuori. Come ogni adolescente, vive la transizione all’età adulta con molte domande e incertezze, e quando ciò che vede si fa insostenibile sceglie la via di fuga del sogno e dell’immaginazione. Realtà e visionarietà, dunque, sono le coordinate lungo le quali Crialese racconta la sua personale visione del mondo, con una inclinazione più spiccata verso la seconda, perché il cinema che gli interessa, afferma, è quello che guarda oltre.
L’uscita del film è stata accompagnata dalla notizia del coming out del regista, ma si è trattato di un’operazione di marketing, sostiene Crialese. L’immensità non è la storia di una transizione di genere, ma la storia di una famiglia e di una ragazzina che si pone domande. E del resto siamo sempre tutti e tutte in transizione, perché la vita, come il cinema, è movimento e trasformazione. Più che sulla diversità delle vite altrui, conclude, l’accento andrebbe posto sull’unicità di cui ciascuno è portatore e di questa unicità dovremmo fare tesoro.