Non molti sanno chi erano gli hobos, eppure per decenni, da fine Ottocento fin oltre la metà del Novecento, questi vagabondi americani hanno popolato l’immaginario collettivo d’Oltreoceano e contribuito a costruire una cultura giunta fino a noi attraverso la musica, la letteratura, la poesia e il cinema.
Figure che si muovono tra realtà storica e leggenda, tra la resistenza all’irrefrenabile corsa americana verso il progresso industriale e il mito intramontabile del pioniere, in termini contemporanei possono essere definiti lavoratori migranti, che si spostavano da un capo all’altro degli Stati Uniti saltando clandestinamente sui treni merci in cerca di impiego occasionale.
Vagabondi per scelta, per lo più, senza fissa dimora ma diversi da altre categorie sociali quali i tramps, i giramondo senza casa e senza lavoro, e ancor di più dai cosiddetti barboni. Nell’etica hobo c’era un rifiuto di piegarsi alle nuove condizioni create dalla meccanizzazione a danno della working class (come non pensare ai derelitti di Furore?), non un rifiuto del lavoro in sé. Una disobbedienza alle norme sociali che si andavano definendo man mano che mutava il sistema di produzione, ma anche un’aspirazione, tipicamente americana, all’esplorazione, al viaggio, all’avventura e alla libertà.
Nel fine settimana 1-2 ottobre The Globe, il piccolo teatro e sala concerti di via Giovanni Spampinato, a Ragusa, che da quando è nato si è contraddistinto per la ricerca in territori musicali e artistici non convenzionali, si trasforma temporaneamente in una hobo jungle, uno di quei quartieri periferici e suburbani nei quali si incontravano gli hobos e dove è nata la controcultura americana celebrata da scrittori come Jack London e Jack Kerouac, tra gli altri.
Hobo Festival, alla sua prima edizione, è una due giorni di concerti che vedrà sul palco musicisti italiani e stranieri come Buck Curran, Stella Burns, Gipsy Rufina, Stefano Meli e Carlo H. Natoli, accomunati da una sperimentazione avanguardistica che prende le mosse dal folk blues delle origini, quello che affonda le radici nella cultura degli hobos. Per intenderci, basta fare i nomi di Woody Guthrie, John Lee Hooker (la cui immagine stilizzata campeggia sulla bella locandina del festival, realizzata da Gaetano Mangano) e Bob Dylan. Accanto ai concerti, le performance artistiche di Guglielmo Manenti e Sergio Cascone, che ricreeranno visivamente l’immaginario legato ai vagabondi americani e al codice linguistico da essi usato, una serie di simboli tracciati su vagoni, staccionate, muri e stazioni ferroviarie per comunicare tra loro e segnalare pericoli e risorse dei luoghi che attraversavano.
Un piccolo festival sperimentale e indipendente con una proposta originale e inedita, che, come spiegano gli organizzatori, “più che un semplice omaggio alla cultura hobo vuole essere una rilettura in chiave contemporanea e una ricerca lungo le ramificazioni che ancora oggi essa produce nella musica, nell’arte e nel sentire del nostro tempo, con riferimenti chiari alle migrazioni e alle ribellioni di sempre”.