Nevicò qui in Sicilia un 19 di marzo. Per noi era la festa di San Giuseppe. Io ero piccola, mio padre lo chiamavamo Pippo e a scuola non si andava. Pranzammo nella nostra stanza con i mobili eleganti, e la neve si posava sulla piazzetta antistante. La camera era gelida, e noi stupefatti. Mio padre era nervoso, come sempre in certe circostanze. Il servizio dei calici in vetro di Boemia, i piatti di porcellana beige, il sugo e gli involtini rossi. E poi le frittelle zuccherate e farcite con la ricotta ragusana, l’odore dei dolci ancora caldi e soffici in bocca. E la neve cadeva. E poi sarebbe stata primavera.
Mio padre in Africa, ne guardo una foto minuscola, indossa una sorta di tuta militare e sorride con tutti i denti scoperti. Si chiamava Giuseppe. Detto Pippo. Mio figlio mi chiede di lui, di un tempo che dimenticammo in parte. Lo ha conosciuto, e amato. Ma poi, d’un tratto gli dico che io ho un senso di colpa grande in questi giorni. Noi che non abbiamo avuto guerre e i figli che vivono anni difficili. So che mi ascolta e sorride, è come se sentissi il rumore del suo sorriso. Ne immagino le labbra, gli occhi che si abbassano e sono “pensanti”. Un attimo di silenzio che è un parlare fra noi. Adesso ascolto una canzone di Mina, dei miei anni antichissimi, dice: da quando non ci sei non mi succede più di ridere per niente come quando c’eri tu… E allora tutto ho dentro, tutto vorrei dire a chi non può esserci più e mi stringo il lenzuolo intorno al viso, pensando anche a Milano, quella degli anni trenta che vide mio padre nelle vie intorno a Brera. E quella che si è piegata in questi due anni di dolore mai immaginato. Vorrei chiedere scusa a tutti. E non so perché. Però pensatemi stamattina. Auguri a chi porta questo nome grande.