Erano gli anni cinquanta e la tromba suonava nelle canzoni. Le donne dai seni pizzuti, dalla vita sottilissima, le loro scarpette scollate, le banda dei capelli scesa su un occhio solo. I nightclub e le orchestrine e certi abbracci forti e suadenti. Uomini dalle spalle robuste dalle giacche corte dai baffi sottili. Mia madre ballava con il capo chinato, mio padre con il braccio piegato, si faceva carnevale e andavano ai the danzanti, nei pomeriggi ancora grigi, con le nuvole sopra i ponti della mia città.
Avevo sofferenze di bimba e gelosie sottili. Il suo rossetto troppo colorato, gli abiti fiorati e aderenti sul busto, la gioia nascosta, la sala piena di fumo denso, coriandoli sulla mia testa sulle mie labbra sugli occhi che volevano piangere. Ballavano. Guardando l’obiettivo del fotografo di sala. Coriandoli sul pavimento. Si faceva sera sulla vallata, l’orchestra con la sua tromba e il sorriso fiducioso. Doveva tutto avvenire, quegli anni che andavano vissuti con facilità dopo la distruzione, la cucina all’americana di legno bianco, la stufa nelle stanze, le gambe infreddolite in inverno, le scarpe troppo grandi, le città con le luci ancora fioche, il sugo e la messa della domenica. Ma si è sempre ballato, in epoche grigie e anche colorate. Si andava alle cinque del pomeriggio. Orchestra festosa, le signore in abito a ruota, piccoli tacchi, cappellini stravaganti. Il pavimento di marmo lucidissimo, la scala che portava al ristorante, luogo come inaccessibile. In pasticceria certi tartufi al cioccolato e baci perugina. Le coppe di panna cosparsa di cannella. I bitter arancioni e rossi con vicino una sola oliva verde nel suo stecchino. Le coppie ballavano “… tua, fra le braccia tue, per sentirmi in due…”. Desideravo una gonna ampia e gonfia, un uomo che mi cingesse la vita, dai capelli lucidi di brillantina, e dal ventre un po’ sporgente, giacche abbottonate e scarpe di vernice. La vallata era rigogliosa, di un verde sottobosco, il ponte nuovo da attraversare nella sera fredda, il cielo di nero cupo, il desiderio di tornare a casa, stretta alla mano di mia madre, il suo rossetto di fuoco, la banda dei capelli scuri. Tirava vento su Ragusa, le coppie accaldate dal ballo, la città che nasceva e si allargava. Palazzi nuovi. Altra vita. Il futuro. Una volta a carnevale vinsi il primo premio in maschera. Ero un maharaja. Con turbante e pietra preziosa in centro, con ricami e pantofoline dorate, con fusciacca fucsia e baffi pitturati. Non dovevo partecipare alla sfilata ma mi ci trovai spinta da alcune mamme. Le amiche si adombrarono perché non era previsto. A casa quella sera mi aspettavano i genitori, intenti nelle loro cose. Aprii il premio: un pianoforte di plastica rossa. Suonai sui tasti colorati delle note. Il gatto folle mi morse un orecchio. Avevo il trucco che mi colava e volevo andare a letto. Ero stata un uomo nel mio vestito imprestato, ma io ero diversa. Si sa, tutte abbiamo desiderato una parrucca con boccoli biondi. Pensai all’invidia inutile delle mie amiche al loro sgomento ai loro occhi truccati. Mi addormentai con il rosa delle guance e il nero dei baffi. Forse sognai. E il pianoforte mi restò per sempre. A casa mio padre impastava per me biscotti e io mi guardavo allo specchio. La vallata era sempre quella di oggi, le tende si sollevavano leggere col vento siciliano. Mia madre mi tenne a lungo la mano da bambina per la paura che mi prendeva in quell’attimo in cui tutto svaniva. Era lei che non volevo abbandonare. Era lei. E intanto le stagioni si sommavano, crescere era cosa lenta, volevo raggiungere i venti anni e passeggiare lungo le vie, amica di tutti, sedendo un poco nei locali per meglio conoscere la gente che comprava, attraversando la città che era come concentrata, presa dal vento invernale, sicura e ordinata. Tuonava mentre tornavo a casa, “surruschi” mi disse un anziano professore di matematica del liceo mentre guardavamo lampi lontani e colorati che mettevano paura, senza che arrivasse la pioggia. Mi aspettava un gatto folle dagli occhi di vetro e mio padre nervoso. Posteggiata c’era la Giulietta sprint celeste con cui lui ci faceva volare nei viaggi per l’Italia. Le stanze erano fredde, il letto gonfio di coperte, una stufa elettrica e il sonno e la luce grigia della televisione, e sogni. Tanti sogni. Era febbraio e mi ammalavo e pioveva sui vetri e mi piaceva tanto. Restavo da sola con paura e anche con un piacere nascosto. Mi guardavo in uno specchietto per ritrovarmi, perché credevo di essermi spersa. Segnavo negli occhi ogni oggetto della camera, tremavo nel freddo dell’inverno senza termosifoni, mi doleva la testa e sfogliare dei giornali diventava necessario per dimenticare. Leggevo tanti libri, era il mio desiderio più grande averne accanto sul letto, accendevo la lampada e cercavo di pregare, sentivo dentro una stretta che aveva poco senso, non fosse che tutto cambiava a poco a poco e il mio corpo si trasformava, e i pensieri si affollavano e le paure crescevano e niente appariva bello ma anche sì, e bisognava attendere ma non lo sapevo e nessuno me lo diceva. La valle si faceva buia e le nuvole coprivano i monti. Non mi piacevano i temporali, il loro tuonare, credevo niente mi potesse salvare. Le vetrate sbattevano il vento soffiava la casa aveva ombre. Il brodo nel piatto, il mio viso allo specchio. La notte temevo un incendio improvviso. Al mattino mettevo un rossetto. E poi crebbi, piano. Credetti a tutto, e forse avevo pochi dubbi ma quel tutto era in ordine nei pensieri perché sbagliare era un obbligo dell’età così come avere sentimenti. Stavo a fantasticare col capo poggiato ai finestrini delle auto o dei treni e il paesaggio scorreva e i colori cambiavano nei mesi e così gli amici e anche le mani da accarezzare. I genitori che sembrava non invecchiassero mai, le loro voci spesso concitate, la case molto amate, che avrei sognato ogni notte, a farmi compagnia e a rassicurarmi. Gli anni erano lentissimi e non crescevo mai – o così mi pareva. Imparai a baciare.