Stamattina, 21 gennaio 1952, è iniziato un ciclo di incontri culturali nelle scuole di Ragusa promosso dall’assessorato alla Pubblica istruzione e Sviluppo di comunità. Il tema degli incontri è “la donna nei proverbi”. Obiettivo dell’iniziativa, secondo una nota del Comune, “far conoscere ai giovani studenti il concetto di donna nella cultura tradizionale siciliana sia attraverso un percorso letterario che di musica popolare”.
Avete letto bene, 1952. Non si spiegherebbe altrimenti una simile proposta alle scuole nel corrente anno 2022, no davvero.
Viviamo in un’epoca su cui insistono problematiche gravissime quali la violenza di genere in tutte le sue declinazioni – dal femminicidio allo stupro, dallo stalking agli abusi emotivi e alla violenza istituzionale -, la disparità salariale, l’iniqua ripartizione del lavoro di cura tra donne e uomini all’interno delle famiglie e la mancata conciliazione lavoro-famiglia, solo per citarne alcune. Da settimane sui mezzi di informazione nazionali non si fa che parlare delle violenze di Capodanno in Piazza Duomo, a Milano. Degli ultimi giorni è la notizia dell’ordinanza del Gip di Roma sullo stupro di una sedicenne avvenuto la notte di San Silvestro 2020, da cui emerge la spavalderia e l’omertà dei giovanissimi aggressori e la complicità dei loro genitori. Tutti sintomi di una sottocultura violenta e patriarcale da cui questo Paese, ancora, non riesce in alcun modo a emanciparsi.
Ma a Ragusa si ritiene di dover offrire agli studenti della scuola primaria e secondaria di I grado una proposta culturale anni Cinquanta, lontanissima dai temi di attualità più urgenti.
Senza nulla togliere all’interesse storico o antropologico che potrebbe rivestire l’indagine sui proverbi siciliani (ma perché proprio quelli sulle donne allora?), questa non si può ritenere in alcun modo una proposta formativa al passo con i tempi e, probabilmente, con le aspettative degli studenti.
Sorge anche il legittimo dubbio su quale sia il concetto di donna che ne emerge. Andando a memoria, le nostre antenate, fino a non molto tempo fa, erano donne sottomesse, relegate in ruoli domestici e alla cura dei molti figli, prive di un ruolo attivo nella dimensione pubblica e di indipendenza economica, spesso maltrattate e abusate. Certo non tutte, ma la quasi totalità sì.
Tanto per fare un esempio, un proverbio a caso tra quelli più popolari, e non dei peggiori, recita Cu ccu scecchi cummatti e fimmini criri facci ri DDiu mancu ni viri!, con un ricorrente parallelismo tra donne e asini e un esplicito messaggio misogino.
Questa è dunque la proposta formativa che si vuole presentare ai giovanissimi di oggi? Per quanto si possa tentare di giustificarla, non si riesce proprio a scacciare gli effluvi inconfondibili della cucina delle nonne (trisavole, nel caso degli studenti).
In copertina un fotogramma del film di Pietro Germi “Divorzio all’italiana”, 1961