Auguri, Salvatrice! Nei suoi cent’anni frammenti di storia, tra petrolio e disincanto

1240

La signora Salvatrice Distefano ha compiuto 100 anni. Un traguardo festeggiato con la sua famiglia, alla presenza del sindaco del comune di Santa Croce Camerina. La sua città d’origine, anche se per tantissimi anni ha vissuto a Ragusa. Un pranzo nell’amata Punta Braccetto, poi la festa in casa di riposo con quanti le vogliono bene.

Ho conosciuto la signora Salvatrice, insieme a una delle figlie, Giulia, in occasione della stesura della mia tesi di laurea magistrale in Storia, scegliendo di privilegiare l’aspetto antropologico. Raccontando di pece e petrolio a Ragusa, in particolare di quel ‘vischioso disincanto’ che infiammò e disilluse, provavo a mettere insieme i dati d’archivio e quelli dell’etnografia, in un tentativo di muovere i miei primi passi in una ‘zona di mezzo’, o più correttamente in quella “frontiera della frontiera” che è l’antropologia storica.

Salvatrice e i suoi racconti mi hanno aperto un archivio prezioso, quello della memoria che resta, un ritorno a quei fatti con il ‘pensiero’ (inteso alla siciliana: u pinsieri, a volte confuso, ma genuinamente illuminante) di oggi… Nella mente i grandi amori, l’amato marito, figlie e nipoti, gli americani che non conobbe mai di persona, ma cui sapeva tutto dai resoconti del coniuge, quel petrolio che è ‘croce e delizia’… Un racconto impastato dall’amabilità del sorriso e della simpatia…

“Sugnu ro ’21, quanti anni iaiu?”. La signora Salvatrice ha iniziato così il suo racconto che parlava americano, anche se l’americano, lei, non lo conosce neppure. È l’americano che fece la piccola ‘fortuna’ della sua giovane famiglia; che poi – allora – fortuna era un lavoro dignitoso, negli anni cui l’onda lunga della ricostruzione post bellica disegnava ‘snodi’ di rinascita.

Microstoria, che è storia bella e buona (in tutti i sensi). Perché è attraverso il racconto della signora Salvatrice che ho ricostruito ‘pezzi’ di quel ‘sogno americano’ made in Ragusa, fatto di ‘oro nero’ che ubriacò e largamente illuse. Ccu l’uocci cini e i manu vacanti, il petrolio di Ragusa, in breve tempo, lasciò Ragusa e i ragusani. Ma per Salvatrice e la sua famiglia l’esito fu differente…

L’americano, che fortuna!

Parla ‘americano’ un tris di villette prefabbricate, in legno, in uno dei tratti di costa più belli della provincia di Ragusa A Punta Braccetto, un luogo affascinante, una frazione tagliata a metà: una parte, quella più vicina al mare, territorio comunale di Ragusa, l’altra, invece, fa capo a Santa Croce Camerina. La signora Salvatrice: «Sugnu ro ‘21, quanti anni iaiu?», sorride, la figlia Giulia soccorre quella défaillance: «Mamma, sono 97 anni». Lei la guarda con uno sguardo di assenso. «Aviemu a casa a Punta Braccettu». È la prima cosa che mi dice, sarà una sorta di ciclico ritornello, e ripete sempre il nome di quella frazione con un sorriso che le illumina il volto.

Apro questo capitolo […] con i ricordi di Giulia e della sua anziana mamma, perché il loro racconto è in qualche modo singolare. A ragione, sin dai primi anni dopo la scoperta del petrolio, il termine per eccellenza usato diffusamente per descrivere quell’esperienza fu ‘illusione’ […]. Per Giulia e la mamma, la scoperta del petrolio, invece, «è stata una fortuna. Ha dato molto. Tanta gente ha trovato lavoro, il benessere l’ha portato, ha dato lavoro ad altra gente. No, non ci aspettavamo di più. Ripeto, per noi è stata una fortuna».

Giulia racconta, la mamma la interrompe spesso, con in mente la storia della casa di Punta Braccetto. È in quella casa che ha trascorso gli ultimi anni con il marito, morto nel 2010: «Gli volevano bene tutti. C’era tutta a città o funerali. Quelli del partito… Se qualcuno avia bisogno ri lavorare, idu cciu circava». Era una sorta di sindacalista, uno che se poteva dava una mano a tutti.

La figlia prende un portafoto, c’è una fotografia del papà e della mamma, «erano giovanissimi in quella foto». La conversazione pro- cede senza rispettare tempi, piani, disordinata ma solo se la sia vuole come un’intervista, appassionante e significativa se si prova a sentirla come una storia di vita. Il papà di Giulia fu tra i primi assunti dalla Gulf. Il motivo? Semplice: Gianni conosceva bene l’inglese, anzi l’americano. «Era nato a Ibla nel 1914. Suo padre, cioè mio nonno, emigrò in America, per fare fortuna. Non so se andò con tutta la fami- glia o ci andò da solo…». … «Ci andò solo, poi quando il bambino aveva un anno tornò e si purtau tutta la famiglia lì», ricorda la mamma, nel bel mezzo di un altro ‘discorso’. «Lo hanno messo in collegio dai Salesiani, loro dovevano lavorare. Dicevano: se stu figghiu sta in giro è persu. Ogni sabato mattina lo prendevano e il lunedì mattina lo ri- portavano di nuovo. Il fine settimana stava a casa… nei salesiani, in collegio s’immagina lei se non ha studiato, non poteva uscire… a 16 anni è tornato… che lavoro facevano? I miei suoceri facevano portare le cose dalla Sicilia, formaggio, olio. … l’America tannu non era niente, non c’era luce…». Giulia la riprende: «Mamma, tornando qui non c’era niente…». La mamma la guarda, sorride, s’arrende, ma poi torna alla carica: «In America non c’era niente, col gas era la luce…». «Mio papà abitava tra la quarta e la quinta strada di New York, questo non lo poteva mai dimenticare». È arrivato alla terza media, nel frat- tempo il padre aveva fatto un po’ di soldi e il suo interesse era quello di tornare. E così è stato.

«Mio marito era di una intelligenza unica! Ha imparato l’americano e non l’ha dimenticato! Sono arrivati gli americani, prima i tedeschi a Donnafugata e poi gli Americani, c’ana truvatu u pitroliu, all’aeroporto di Comiso mio marito ci faceva da interprete…». I ricordi sono un grumo di circostanze, ma tutte lucidissime, solo un po’ mischiate. La figlia conferma e prova a mettere un po’ d’ordine, il papà fece da interprete per i militari alla base aerea di Comiso, impiegata durante la seconda guerra mondiale per l’aviazione militare. La mamma scambia i tempi, ma americani quelli dello sbarco, americani quelli della Gulf, e il pensiero da esprimere è questo: «Non è ca travagghiava, faceva l’interprete». Intendendo il “travagghiou” come lavoro manuale, esalta il marito che, «intelligentissimo», faceva un lavoro di più alto livello, traducendo sia per i tedeschi che poi per i gli americani. «Mio marito sapia l’inglese, con gli americani… parlava cche tedeschi… si è evitato di andare al fronte…». E Giulia: «Se l’è cavata perché a quei tempi non è che si mangiava tanto bene, portava a casa scatolette… Durante la guerra loro erano in campagna quando sono arrivati gli americani coi paracadute. Hanno aiutato dei militari, un militare lo hanno ospitato: Bobby. Ti ricordi mamma? Ci ha poi mandato una fotografia». La mamma ricorda bene, «a quantu stesi?!» (“quanto tempo è rimasto?!”)… «Lo hanno aiutato e quando è tornato in America ha scritto a mio papà, ha mandato una fotografia e un pacco con tante cose americane, vestiti per noi»… «Tutti si fotografie l’aviemu… mio marito era ben voluto da tutti, faceva bene a tutti…».

Nel 1939 il matrimonio, lei 18 anni, lui 26. «Era affascinante, vestito di bianco», inizia la figlia, e con gli occhi divertiti, aggiunge la mamma: «Nu romanzu putissimu fari». Al ritorno dall’America inizia la vita in campagna, a Santa Croce Camerina, con Gianni che è co- stretto a fare da capofamiglia, perché il padre si ammala. Ma lui mal sopporta quella vita. «Con la mamma sono cresciuti a Santa Croce, lui voleva una donna di casa». «Lui si voleva sposare e c’hanno fatto conoscere me… Si è aperto puru un cinema, a Santa Croce… e poi era impegnato nel partito». Gianni era un fervente comunista, fu anche vice sindaco di Santa Croce. L’insofferenza per la campagna lo portò a trasferirsi a Ragusa.

Nell’anno 1953. L’anno del petrolio, le cui ricerche culminarono con un tripudio di festeggiamenti. «Quando ha saputo che c’era il petrolio ne ha approfittato per venire a vivere a Ragusa. Era l’unico modo per togliersi da quell’ambiente più piccolo… io ero in quarta elementare…». A Ragusa accompagnava il lavoro con lo studio alla scuola d’arte. Giulia: «Papà è entrato subito qui come operaio, come pittore, alla Gulf è stato assunto subito ed è stato molto presente». Giulia e la mamma non entrarono mai nelle case degli americani, non conobbero le loro famiglie. Ma Gianni sì, «Avevano grande fiducia in lui. E mio padre ci raccontava tante cose. Ci raccontava che stavano bene: per i bambini avevano realizzato, accanto agli uffici, la scuola e credo ci fosse anche la loro chiesetta… mio papà mi dicevano che c’erano le aule… si erano creati il loro mondo… mio papà andava, lo conoscevano tutti. Mi ricordo che mi ha portato una bambolina una volta, di pezza, sembrava di pelle umana, morbida morbida, con le treccine: non posso dimenticarlo. Me l’hanno regalato loro». I rapporti con gli americani della Gulf furono ottimi, conferma Giulia: «Avevano una grande fiducia in lui. Non so se sapevano che fosse comunista, che era ateo sicuramente… I rapporti coi preti, invece, era brutto. I miei non mi hanno battezzata quando sono nata perché ero figlia di comunisti. Mio papà gli hanno chiesto cosa volesse fare, ma a lui non interessava: se volete, battezzatela. Mia nonna paterna era molto credente, avevo più di un anno, ci sono andata a piedi al mio battesimo… Mia mamma? Era in- differente non ha studiato tanto, fino alla quarta elementare… allora erano quelli i tempi…». La mamma annuisce, conferma, sorride. Poi scandisce: «Mia mamma era romana. Mio papà facia u mastru i carretta, avevamo a campagna a Vignazza, quella campagna ancora c’è. I genitori si nnierru a’ Merica e a lassarru a zia».

Inizia un racconto che mi richiama subito alla mente quello che scrive Pietro Clemente nel testo che ho citato parlando dei picialuori. La ‘postura del ricordante’, in un rimando tra passato e futuro, in questa «torsione della temporalità» che richiede un «tornare e insieme esserci, essere là ed essere qui, procedere verso il futuro, con la memoria di un passato». Una torsione che le parole ci consentono. Allora il ricordare diventa un «aggirarsi nello spazio di un sé che non c’è più, è elaborare una assenza che è diventata memoria»107. E quando Giulia prova a spiegarle che non c’entra, quel racconto non è l’oggetto della nostra conversazione, s’impongono con forza sempre le parole dell’antropologo italiano, contenute nello stesso libro, qualche pagina più avanti, quando spiega che il mondo letterario, ma anche la ricostruzione storica, non hanno «la pietas, la teoria, la pazienza sufficiente per imparare a leggerle (queste storie n.d.a.) come io le leggo»108. Mi sottraggo al paragone, impensabile, ma medito i senti- menti che mi suscitano i ricordi della mamma di Giulia uniti a quella chiave interpretativa di Clemente. E le chiedo, con partecipazione e curiosità, di proseguire quel racconto. La mamma romana, il papà di Santa Croce, si sono conosciuti a Roma durante la Prima guerra mondiale. Lei era ospite dalla zia. «Avia 15 anni, si facia i passiati. Chistu a vitti e s’annamurau. Sa purtau cca…». Benedetta America! Dietro il matrimonio, il posto alla Gulf, caso, destino o provvidenza, il soggiorno oltreoceano in qualche modo ci mise lo zampino.

Finalmente, ora può raccontarmi di quelle case a Punta Braccetto. Lo fa Giulia, ma la mamma ora è attenta, ‘vigila’ su ogni parola: «La Gulf costruì alcuni uffici in legno, oltre poi a quelli in muratura. Alcuni anni dopo, quando già la Gulf era andata via, mio padre, che continuò a lavorare fino al 1974, quando andò in pensione, chiese di potere acquistare alcuni moduli di quegli edifici in legno, che erano or- mai in abbandono. Era il mese di gennaio del 1970, io e mia sorella ci siamo fatte un prestito di 500.000 lire ciascuno e abbiamo comprato il terreno a Punta Braccetto. I moduli in legno li abbiamo presi per 500.000 lire. Abbiamo quindi realizzato tre villette a Punta Braccetto, una ciascuna per noi due e una per i miei genitori. E li abbiamo vissuto fino a quando mio papà è morto nel 2000». «A mari vosi siri purtatu quannu muriu», così la mamma conclude il suo «romanzu».