Il pubblico ministero della Procura di Roma è arrivato alle sue conclusioni, la difesa si dice certa di poterle smontare punto per punto, ora sarà il Giudice dell’udienza preliminare a decidere se dare ragione all’una o all’altra parte, rinviando a giudizio padre Giovanni Salonia o chiudendo il caso con un non luogo a procedere.
Avendo seguito sin dall’inizio il caso giudiziario che vede coinvolto il frate cappuccino e psicoterapeuta ragusano, accusato di abusi sessuali da parte di una suora a Roma, e continuando a privilegiare la possibilità di rendere un servizio alla corretta informazione rispetto a quella di una più facile incetta di click, per dar conto di questa novità tocca innanzitutto il compito di precisare che Salonia non è ancora “a processo” – come molti nostri illustri colleghi stanno titolando in queste ore – e che se dovrà andarci sarà appunto il Gup a stabilirlo nelle prossime settimane.
I meccanismi di verifica del sistema giudiziario, è bene ricordarlo, conservano ancora quel briciolo di garantismo che dovrebbe rappresentare anche un monito allo scandalismo di cui molta stampa sembra invece affamata.
Così tanto affamata da ‘sbagliare’ (finendo forse per ‘soddisfare’ qualcuno che vorrebbe far formulare all’opinione pubblica una sentenza prima ancora che arrivi quella vera) la vittima della quale nutrirsi: così è accaduto ieri a Il Messaggero, che pur di scagliarsi contro la Chiesa romana ha usato il caso Salonia per tessere la fantasiosa ricostruzione di un presunto tentativo di insabbiamento, senza far nemmeno cenno alla possibilità che possa trattarsi, al contrario, di uno scientifico tentativo di screditamento.
Ipotesi, questa, altrettanto plausibile, se è vero come è vero che contro Salonia si era messa in moto una vera e propria macchina del fango sin da quando Papa Francesco aveva voluto nominarlo Vescovo ausiliario di Palermo, al fianco di Monsignor Corrado Lorefice, scatenando la contromossa di coloro che, all’interno della Curia romana e con agganci solidi in Sicilia, ne hanno fatto il pretesto di una più generale e sistematica delegittimazione delle più ‘sgradite’ nomine del Pontefice. Sgradite sol perché, anche questo è bene ricordarlo, orientate ad un profondo rinnovamento dell’episcopato.
Già il calunnioso dossier contro Salonia che fu in quei giorni tempestivamente recapitato in Vaticano, conteneva gravi accuse che sono state verificate e che sono puntualmente cadute, spingendolo tuttavia ad una serena rinuncia all’incarico, col desiderio di sottrarre la Diocesi palermitana ad altre battaglie legali.
Questa rinuncia Papa Francesco non l’ha mai ufficialmente accettata, mentre molte iniziative si sono succedute (a livello personale e anche istituzionale), con l’obiettivo di spingerlo a riconsiderarla, come atto di giustizia e verità nei confronti di padre Salonia.
E l’incontro privato tra i due che si è svolto a Palermo in occasione della visita del Pontefice per l’anniversario della morte di don Pino Puglisi, quello che Il Messaggero e altre testate in questi giorni considerano una delle prove del presunto tentativo di insabbiamento, addirittura arrivando a incoraggiare – o almeno a suggerire all’immaginario collettivo – un contrasto tra il Tribunale Vaticano e quello dello Stato italiano, a chi ha una visione più generale e più lucida della questione è sembrato invece sin da subito un gesto simbolico di resistenza e di testimonianza. E in effetti si è rivelato tale al punto che è bastato a scatenare l’ennesimo ingranaggio del meccanismo a orologeria: nemmeno dieci giorni dopo, infatti, è arrivata la notizia della denuncia per abusi.
Oltre il facile scandalismo da prima pagina, sarà allora piuttosto questa quanto meno strana coincidenza della tempistica dell’accusa con lo sviluppo della vicenda calunniosa riguardante la nomina episcopale a poter far fare all’opinione pubblica la propria idea della faccenda, in uno con la riconosciuta professionalità e l’acclarata moralità del padre Salonia, attestate a livello nazionale e internazionale.
Ma è oltre questo che gli avvocati della difesa si dicono certi di poter dimostrare l’infondatezza dell’accusa, a cominciare dalla “eccentricità del lungo tempo trascorso tra il termine della terapia e la denuncia, più di quattro anni”, dalla “riconosciuta efficacia della stessa, sia da parte della religiosa, che anche da professionisti terzi”, e “dalla circostanza che vede totalmente taciuto l’asserito abuso, nonostante negli anni intercorsi dopo il termine della terapia la suora sia stata, per di più, seguita da varie figure professionali”.