Ripensare il conflitto in un mondo senza guerre. La lezione della Gestalt

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Se entrambe le tragedie di Euripide che compongono quest’anno il ciclo delle Rappresentazioni classiche al Teatro greco di Siracusa – Elena e Le Troiane – denunciano l’inumanità e l’innaturalità della guerra, dimostrando nel caso specifico quanto quella di Troia abbia lasciato disperati e sconfitti tanto i vinti quanto i vincitori, la domanda con cui interrogano il presente è chiaramente come si può vivere in un mondo senza guerre, com’è possibile ripensare il tema del conflitto tanto nella polis, tra i legami sociali, quanto nella casa, tra i legami familiari.

A farsi protagonista del dibattito sulla grande attualità dei temi del teatro classico è stato anche quest’anno – come da ormai molti anni a questa parte – l’Istituto Gestalt Therapy Kairos (Ragusa, Roma, Venezia) diretto da Giovanni Salonia e Valeria Conte, che hanno scelto di dedicare quest’edizione dei Dialoghi interdisciplinari sulle Tragedie Greche al tema “Potere e Violenza nella Polis. Tra legami, interessi e aggressività”.

 Troia è il simbolo di una guerra nata per un motivo inutile. Lo sappiamo, eppure ci portiamo dentro una visione del mondo fondata sull’elogio del potere forte”, ha esordito il professor Giovanni Salonia nella sua relazione su “Il contatto come contratto. Nella casa e nella polis”: “Siamo rimasti legati all’idea che ‘il polemos’ sia il padre di tutte le cose, che solo dalla guerra, solo dal conflitto possa nascere la crescita. Ma la guerra, come queste tragedie dimostrano, sancisce il fallimento della relazione, dell’ascolto di se stessi”.

Chiunque abbia senno deve evitare la guerra”, ammonisce Cassandra ne Le Troiane.

Folli voi tutti che nella guerra, nel cozzare di armi gagliarde cercate la gloria”, le fa eco il coro di Elena: “Se decideremo le dispute con scontri di sangue, mai la discordia lascerà le città degli uomini”.

Come accadrà, allora, che nelle città degli uomini si possa aprire la possibilità di generare un cambiamento positivo, senza questo tributo di sangue?È in fondo – ha proseguito Salonia – la situazione nella quale ci troviamo sin dalla fine della Seconda guerra mondiale: una situazione inedita, che rappresenta per noi un appello a una maturità nuova. Otto Rank pensava all’artista, come a colui che è capace di una realizzazione che si esprime in tempo di pace. Ecco dunque, la possibilità di sperimentare fino in fondo la nostra creatività, nell’ascolto di noi stessi e nella dimensione della relazione. Abbiamo il compito di ripensare in quest’ottica il potere e la violenza: meno potere abbiamo su noi stessi, infatti, più ne cerchiamo sugli altri; meno creatività riusciamo ad avere nei confronti di noi stessi, più crudeli ci dimostriamo con gli altri. Il contatto come contratto è legato alla possibilità che il linguaggio ci divida, ma solo per portarci su un altro livello: se trasformeremo in punti interrogativi il diluvio di punti esclamativi con cui affrontiamo il mondo, potremo sperimentare un confronto costruttivo”.

Ma non basta: “Se proprio questa situazione inedita in cui ci troviamo sembra lasciarci un senso di sfiducia e di sconforto, per mancanza di punti di riferimento, ricordiamo il compito che da Auschwitz ci ha dato Etty Hillesum: custodire la nostra umanità.

Un monito straordinariamente attuale, che richiama gli stessi già lanciati da Euripide dalle righe di Elena, a cominciare dall’episodio del Menelao naufrago, così vicino ai naufraghi del nostro tempo, come ha lucidamente dimostrato il professor Antonio Sichera nella sua relazione su “La guerra di Euripide: una lettura gestaltica”. Menelao è infatti un re spodestato, ormai un naufrago coperto di stracci, che giunto in Egitto, alle porte del palazzo regale di Teoclimeno, si vede cacciato dalla vecchia serva, in barba al proprio statuto di “inviolabile” poiché straniero, “inviolabile” poiché naufrago.

Di gente che sta male ce n’è già abbastanza qui da noi, vai a piangere a casa tua”, dice la serva.

Un passaggio decisivo, nota Sichera: “Euripide ribadisce, con una potenza e una nitidezza rare, il fondamento ultimo dell’Occidente, quella sostanza condivisa che attirò Simon Weil e che le fece cantare nei suoi libri il con-cordare di Atene e Gerusalemme. È qui infatti che le due radici si connettono e si intrecciano. Nel luogo cioè in cui si dichiara solennemente che la fonte primaria della dignità dell’uomo è il suo corpo intoccabile. Il corpo di carne, spogliato, povero, indifeso, è la fonte di una protezione assoluta. Non c’è bisogno di altro. Non c’è nulla da aggiungere. Lo straniero naufrago che bussa alle porte delle nostre città è sacro e inviolabile in forza del puro manifestarsi del suo corpo lacerato e battuto”.

L’incontro che segue, tra Menelao ed Elena che si ritrovano ma all’inizio non si riconoscono, “ci offre – ha spiegato ancora Sichera – almeno tre motivi di ermeneutica gestaltica”: “È una prova antichissima dell’intuizione di Perls e Goodman: il passato irrisolto impedisce il contatto, ostacola il riconoscimento. Il secondo motivo ci viene dall’appello di Elena al marito, che lei invita a fidarsi del soma, del corpo di carne, e implicitamente a non fermarsi al demas. Solo uscendo dal reame dell’immagine, solo prendendo sul serio e ascoltando la carne dell’altro ci si può riconoscere. Ma quando si è irrigiditi, quando la sofferenza antica e lo scambio dell’effettività dell’altro per un’immagine desueta, inattuale, impediscono l’incontro, ci vuole il terzo. È infatti il servo, in Elena, colui che fa da tramite offrendo a Menelao un racconto che gli apre un nuovo orizzonte: solo così Menelao può convincersi e stringere finalmente a sé la sua donna. Il nome comune del mediatore, che designa il personaggio della tragedia, ci sorprende: lui è Therapon. Il servo, il compagno, colui che ha cura. Euripide schizza senza saperlo un ritratto sempre attuale del terapeuta: egli è colui che sa come sia inutile agitarsi, poiché agitandosi non si ottiene nulla, e solo nell’impotenza e nella passività si riceve il kairos, si sperimenta il bene. E mentre accompagna l’incontro, sa alzare lo sguardo sulla società e sulla storia, constatando ancora una volta la folle vanità della guerra: abbiamo combattuto e tanto sofferto per una nuvola”.

 Una verità già resa evidente dalla relazione della professoressa Paola Argentino sul tema “Contro le guerre il  senso della vita: il trionfo degli affetti  in Le Troiane e in Elena di Euripide” e poi ancora una volta riportata all’attualità dalla relazione dell’avvocato Sofia Amoddio su “Il conflitto che-ricrea, il conflitto che distrugge”, poi ulteriormente approfondito dalla dottoressa Valeria Conte nel suo intervento focalizzato sul conflitto nelle relazioni intime: “Oikeios polemos: La guerra in famiglia”.

Nel contesto postmoderno – ha spiegato Valeria Conte – le relazioni intime sono diventate molto più complesse. Le individualità hanno molte più potenzialità, ma spesso non sono facilmente decodificatili nemmeno per noi stessi. Nella coppia, ad esempio, finalmente i partner si scelgono con libertà e per amore, ma poi non sono in grado di gestire l’evoluzione della relazione. All’inizio c’è, ovviamente, una confluenza fisiologica, che ad un certo punto incontra la fase della delusione dell’altro e la crisi del cambiamento. Se non si riesce a trasformare la relazione, si ha la sensazione che finisca all’improvviso o che, al contrario generi una dipendenza ossessiva: è qui che cominciano le rivendicazioni e il dolore in espresso si trasforma in odio. Ecco perché paradossalmente oggi è più facile separarsi ma assistiamo all’aumento delle separazioni giudiziarie. Quello che vediamo, è spesso la confusione persino rispetto alle normali ambivalenze e contraddizioni che emergono nel separarsi, tra il bene che c’è stato e la situazione che c’è. Il problema, allora, non è il conflitto: è possibile separarsi davvero se si riconosce e si rispetta l’altro per quello che è e per quello che è stato e se si parte dall’ascolto di se stessi, in modo che tutte le parole nascano dal corpo”.