Mariam Moustafa, pestata a morte su un autobus, da un gruppetto di bulle. E’ successo a Nottingham, il 20 febbraio 2018.
F.M., 16 anni, suicida a Bologna pochi giorni fa. Un amico su Instagram scrive: «Maledetti bulli… sarete contenti adesso».
Emilie, 17enne francese: sognava di fare la veterinaria, la depressione nella quale era sprofondata a causa del bullismo l’aveva portava a pesare 42kg. Si è buttata da una finestra nel dicembre 2015.
Ammy Dolly Everett, 14 anni, suicida in Australia per bullismo, nel gennaio 2018. Era diventata famosa per aver prestato il volto ad una campagna pubblicitaria di un’azienda produttrice di cappelli.
Sono solo quattro delle storie balzate agli onori delle cronache nazionali ed internazionali e accomunate dalla stessa, malvagia radice: il bullismo. Tecnicamente, parliamo di quel fenomeno fatto di prepotenze, offese, umiliazioni e prevaricazioni perpetrate da bambini e ragazzi nei confronti di loro coetanei. Vessazioni intenzionali e prolungate nel tempo, che sfociano anche nella violenza fisica tra i giovanissimi. Un problema che esiste da sempre, ma che oggi, complice il web e figure genitoriali che sembrano aver abdicato al loro ruolo di educatori, ha assunto proporzioni davvero colossali, allarmanti. Di bullismo si muore: a volte lentamente, dentro. Spesso letteralmente.
In un documento ISTAT pubblicato alla fine del 2015 e rappresentativo del bullismo in Italia nell’anno precedente, si legge che “i ragazzi della fascia di età che va dagli 11 ai 13 anni (22,5%) sono più colpiti rispetto ai giovani fra i 14 e i 17 anni (17,9%). Più femmine (20,9%) rispetto ai maschi (18,8%) hanno subito comportamenti offensivi, violenti o comunque non rispettosi. I liceali (19,4%) sono i più interessati rispetto agli studenti di istituti professionali (18,1%) o degli istituti tecnici (16%). Tra coloro che navigano in rete, il 5,9% denuncia di avere subito ripetutamente atti di cyber-bullismo. Su questo fronte, il 7,1% delle ragazze, rispetto al 4,6% dei ragazzi, ha segnalato azioni cattive tramite sms, e-mail o i social network”.
Chi il fenomeno lo conosce bene è chi lo osserva ogni giorno e cerca di contrastarlo grazie al suo ruolo, docenti e dirigenti scolastici in primis. Come Lucia Palummeri, dirigente dell’Istituto Comprensivo Statale “G.Caruano” di Vittoria. “Distinguere il bullismo da altre forme di violenza e di aggressività non è sempre facile – spiega – ma alcuni fattori ci permettono di classificare il bullismo come tale: il bullo agisce con l’intenzione e lo scopo preciso di dominare sull’altra persona, di offenderla e di causarle danni o disagi, gli episodi sono ripetuti nel tempo e si verificano con una frequenza piuttosto elevata e c’è un’asimmetria del rapporto: uno dei due prevarica e l’altro subisce. La differenza di potere è dovuta alla forza fisica, all’età o al numero, quando le aggressioni sono di gruppo. Non sempre è facile determinare con esattezza l’evento che si verifica in un contesto scolastico, anche per il silenzio della vittima o di chi assiste. A torto – prosegue – si è soliti identificare il bullismo con l’aggressività fisica, che ne costituisce una modalità, ma non la più riscontrata a livello statistico. Oggi più che di bullismo si parla di bullismi, riferendoci ad altri fenomeni come cyberbullismo, cyberstalking, sexting, diffusisi per l’uso improprio che alcuni fanno delle nuove tecnologie e dei social network. Le prepotenze riguardano tutte le scuole e i gruppi, con forme e significati di volta in volta diversi: riti di iniziazione, competizione forzata. Sono questi i bullismi che si nascondono nelle pieghe della routine scolastica e vengono etichettati come “ragazzate” o “scontri che fanno crescere. Il compito di una scuola che riconosca la propria funzione educativa è quello di non chiudere gli occhi e di entrare nelle dinamiche cercando di orientarle, con interventi di prevenzione e accoglienza non episodici o con percorsi diretti al contrasto, laddove le prepotenze sono manifeste o sono una componente della normalità”.
Qualche episodio di cui è stata testimone oculare?
A scuola può succedere di assistere a qualche episodio di bullismo, sia come testimone oculare, soprattutto in veste di docente, mentre in veste di Dirigente Scolastico, più che assistere ad un evento aggressivo/prepotente, ci troviamo ad ascoltare i racconti di docenti e/o genitori che hanno assistito ad episodi di bullismo o i cui ragazzi (alunni/figli) sono vittima di bullismo. Non ricordo un episodio in particolare, ma tutti gli episodi di cui sono venuta a conoscenza erano episodi in cui la vittima subiva prese in giro, insulti, minacce, esclusioni dal gruppo per i più svariati motivi, danneggiamenti del materiale scolastico.
Gli esperti dicono che per arginare il problema è essenziale fare rete. Famiglia, scuola, istituzioni. Ma concretamente tutto questo come si dovrebbe attuare poi?
Famiglia, scuola e istituzioni: ognuno per la propria parte di competenza, può mettere in campo azioni che quando sono convergenti e condivise possono davvero portare a buoni risultati grazie ad azioni di prevenzione innanzitutto, oltre che di contrasto quando il fenomeno diventa palese. Le misure su cui la scuola può lavorare per contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo essenzialmente sono tre: la Prevenzione: con progetti interni, grazie anche all’apporto di figure professionali come psicologi e pedagogisti, attivando anche sportelli di ascolto. La Collaborazione: con famiglie, enti locali, polizia locale, polizia postale, tribunale dei minori, ASL di zona, osservatori regionali e centri territoriali di supporto, associazioni specifiche del settore a livello locale, regionale, nazionale. La Punizione e le Misure Correttive: con l’adozione di un regolamento volto a sanzionare episodi di mancato rispetto delle regole, prevedendo sanzioni disciplinari di tipo educativo e non punitivo che possano realizzarsi in attività a favore della comunità scolastica. Il provvedimento disciplinare dovrà tendere sempre alla rieducazione ed al recupero dello studente e strategicamente modulate a seconda delle realtà in cui si opera.
Il modo migliore per affrontare il problema del bullismo è quello di adottare una politica scolastica integrata, cioè un insieme coordinato di azioni che interessino tutte le componenti scolastiche ed in cui gli adulti della scuola, dai dirigenti scolastici agli insegnanti, dal personale non docente ai genitori, ognuno in funzione del proprio ruolo, si assumano la responsabilità della relazione con gli alunni. La scuola dovrebbe insegnare maggiormente agli alunni a interiorizzare una cultura della tolleranza e del rispetto verso i coetanei, attraverso la riflessione e la piena consapevolezza della condotta sbagliata messa in atto con la vittima. Il bullo non andrebbe isolato, ma educato all’accettazione dell’altro. Non è del tutto consapevole della sofferenza che provoca. Dunque, bisognerebbe aiutarlo a comprendere la conseguenza del suo gesto nei confronti della vittima, mediante la condivisione del dolore, attivando, per esempio, laboratori teatrali in cui favorire la simulazione del conflitto fra pari. Sarebbe inoltre auspicabile pensare a un percorso di comprensione fatto di stimoli, immagini, racconti ed esercitazioni per ripensare i sentimenti vissuti e le reazioni emotive; e per esercitarsi a imparare a gestire le proprie emozioni, sviluppando la massima tolleranza verso chi è diverso da sé.
E succede? Si sta facendo questo lavoro nel nostro territorio?
Sì, certamente. Nel nostro territorio si è creata una rete di collaborazione tra scuola, Enti locali, Asp di Ragusa e Forze dell’Ordine. Grazie soprattutto al dott. Giuseppe Raffa, pedagogista e responsabile dell’ambulatorio anti-bullismi dell’Asp di Ragusa, promotore di un lavoro di prevenzione e di contrasto del fenomeno in tutte le istituzioni scolastiche, è stato avviato il progetto “Attenti al lupo” e siglato un protocollo di intesa tra i vari attori coinvolti, proponendo altresì incontri con genitori, alunni, docenti, forze dell’Ordine, proprio per aiutare alla riflessione sul fenomeno e soprattutto per introdurre interventi mirati nei confronti dei ragazzi/ragazze, vittime e carnefici, all’interno delle istituzioni scolastiche, grazie ad operatori specializzati. Tutti possono sempre fare qualcosa, ognuno dalla propria angolazione e con diverse potenzialità ed alleanze. Fare rete significa non essere soli, ma saper chiedere anche aiuto e sostegno a chi ha più esperienza.
Quali le ragioni che rendono difficile un’azione di contrasto?
A livello generale si possono addurre ragioni ampie e fondate: un indebolimento generale dell’autorevolezza degli adulti; una sempre maggiore fatica a far valere delle regole di comportamento come orientamenti stabili alla condotta delle persone in crescita; la difficoltà a reperire il significato di “bene comune”, sia che si tratti del clima di gruppo come interesse di tutti o dell’onestà nel trattare le cose della scuola o di un compagno – in un periodo storico, il nostro, che spinge in modo indiscreto verso l’affermazione individuale, la furbizia anziché l’onestà, la vittoria anziché la correttezza nel gioco.