Il Coordinamento provinciale di Ragusa Art. 1 Mdp, ricorda Paolo Borsellino.
“Questa è la storia di un uomo che cammina su una spiaggia deserta, nell’alba infuocata di una domenica di luglio di quel maledetto 1992: di un uomo che sa di dover morire e che vorrebbe gridare al mondo la sua disperazione e il suo sdegno per un Paese governato da compromessi insuperabili, ma che vede parole e lacrime disperdersi nel rumore della risacca. Questa è la storia di un magistrato, abbandonato in territorio nemico da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo, e che invece lo ha condannato ad una condizione di sostanziale isolamento: voleva indagare, ma non lo hanno fatto indagare; voleva testimoniare, ma non lo hanno ascoltato; voleva denunciare il disegno disgregante di quel pool di inquirenti capace di dare un nome e un volto a Cosa Nostra, ma hanno liquidato le sue parole come incrostate dall’ambizione tipica dei “professionisti dell’antimafia”. Lo hanno lasciato solo, ad affrontare il tritolo che lo aspettava in Via D’Amelio, a combattere fino all’ultimo secondo una guerra che non poteva vincere. Sì, perché questa è soprattutto la storia di un eroe: di un eroe che ha scelto di stare dalla parte dello Stato, nella consapevolezza di non avere lo Stato dalla sua parte.
Questa è la storia di Paolo Borsellino: la storia di un eroe solo.
Mentre raccoglieva tra le sue braccia gli ultimi respiri di Giovanni Falcone, vittima della furia corleonese scatenata dalla sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, Borsellino già parlava del suo assassinio come di un appuntamento rinviato. “Tempo”, chiedeva tra una sigaretta e l’altra: “Ho bisogno di tempo, prima che mi uccidano”. Tempo, per catturare gli assassini di Giovanni; tempo, per rivelare i tanti segreti condivisi col collega di una vita. “Tempo, ho bisogno di tempo”.
Gli lasciano cinquantasette giorni: troppo pochi per essere ascoltato come testimone sulla strage Capaci, abbastanza per vedersi negata l’autorizzazione (ispirata da “evidenti ragioni di opportunità”) di indagare sulla morte dell’amico. Cinquantasette giorni, per scivolare in un vorticoso abisso di disperazione senza fine, per allentare perfino il legame con gli affetti più cari, nel tentativo di rendere il momento del distacco meno doloroso per moglie e figli. Cinquantasette giorni, di pensieri, intuizioni, spunti e invettive affidate alla pagine della sua inseparabile agenda rossa. Cinquantasette giorni, perché: “non sarà la Mafia ad uccidermi, ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà”.
Cinquantasette giorni: perché così poco tempo? Perché tanta solitudine? Perché tanta disperazione? Cosa aveva scoperto, Borsellino, per considerare solo rinviato il suo appuntamento con la morte?
Domande destinate a rimanere senza risposta, nel momento in cui la storia di Paolo Borsellino si perde nel “labirinto della trattativa”, tra le pieghe di quelle connessioni attivate tra Cosa Nostra – interessata a sostituire con interlocutori più affidabili i suoi tradizionali referenti politici, rivelatisi incapaci di fermare la slavina del maxiprocesso – e pezzi dello Stato, disposti a scendere a patti con gli uomini di Riina pur di mettere un punto alla stagione delle stragi. Le rivelazioni di Mutolo e la mediazione di Ciancimino, l’incontro con Mancino e gli scontri con Giammanco, Falcone strangolato dalla logica corleonese del “fare la guerra per fare la pace”: Borsellino aveva percepito l’esistenza della trattativa, ma non poteva accettare un compromesso grondante del sangue versato a Capaci. Borsellino aveva percepito l’esistenza della trattativa, ma aveva scelto di agire da uomo dello Stato: anche quella volta, anche a costo di ritrovarsi solo.
Si arriva così a quella spiaggia deserta, all’immagine di quell’uomo che cammina verso un destino ineluttabile; di quel magistrato al quale viene impedito di indagare, di denunciare, di disvelare i segreti di un Paese condannato a vivere senza verità. Si arriva a quella domenica di luglio del 1992, a quell’alba infuocata destinata a essere riempita dall’odore acre del tritolo, dall’urlo alto delle sirene, dalle frasi gracchiate dalle radio della polizia, dai misteri dell’agenda rossa sparita nell’inferno di Via D’Amelio. Ideale epilogo della storia di un eroe impegnato a combattere una guerra che non poteva vincere, di un eroe capace di restare dalla parte dello Stato anche quando avvertiva la lontananza di quello Stato che avrebbe dovuto supportarne l’azione, di un eroe che ha scelto di difendere fino all’ultimo la Costituzione di quello Stato che pure, giorno dopo giorno, lo aveva mandato a morire da solo.