A Vittoria, per il secondo anno consecutivo, sono arrivate le “Carovane Migranti” con le loro testimonianze dal mondo. Un evento unico nel suo genere organizzato da CGIL, Medu (Medici per i Diritti Umani), Casa Valdese, Unione degli Studenti e Coop. Koinè, con il patrocinio dell’amministrazione comunale. Delle Carovane quest’anno hanno fatto parte tre personalità d’eccezione: Fray Tomas Gonzalez Castillo, francescano più volte finito nel mirino della criminalità messicana e del Governo, Imed Soltani, tunisino dell’associazione “Terre pour tous” che rappresenta le madri che cercano i propri figli persi e/o scomparsi durante i viaggi della speranza verso l’Italia, e Li’ Ki’l María Toma Toma di Fundebase, 27enne indigena del Guatemala laureata all’Università Ixil, dedicata all’agricoltura sostenibile nell’ottica del recupero di quel nesso sacro e millenario tra Donna e Madre Terra.
Gli Ixiles sono una delle etnie Maya più resistenti, che da 500 anni fronteggia i tentativi di colonizzazione e che è stata decimata dal genocidio degli anni ‘80, tanto che nella sua famiglia ancora ne portano i segni, tremando di fronte ad ogni divisa. All’abbandono da parte dello Stato, ammaliato dalle promesse delle multinazionali, hanno risposto organizzandosi contro chi vorrebbe privarli del loro bene più prezioso, la terra per l’appunto, il fulcro attorno al quale ruota il concetto di buen vivir, ossia lo sviluppo rispettoso di tutta la comunità e delle generazioni future, che passa attraverso la difesa delle terre a costo della stessa vita.
Giovane leader comunitaria, Li’ kI’l si occupa di tutela dei diritti delle donne, di sicurezza alimentare e di difesa del territorio. Unisce alla religione cattolica la cosmovisione animista finalizzata al recupero di valori persi per la costruzione di un mondo più giusto: totalmente un altro universo rispetto al nostro, votato al consumismo.
“Per noi del popolo Maya la Madre Terra è sacra – spiega – la difendiamo e la coltiviamo e dei suoi 26 frutti ci nutriamo e viviamo. Noi apparteniamo ad essa e la rispettiamo, e Lei ci permette di esercitare una sovranità alimentare e di essere indipendenti rispetto al modello capitalista che le multinazionali ci vogliono imporre, a scapito dei tratti caratteristici della nostra identità”.
Ma cosa indica, esattamente, l’espressione buen vivir?
“Non lo stare al passo con la tecnologia o altri mezzi di comunicazione, come i giovani potrebbero pensare. Ci rifacciamo al concetto di vivere bene degli anziani, dei nostri nonni, ossia il contatto diretto con la natura, ed è su questi principi che si fonda la nostra Università, che, soprattutto a noi donne, dà un’educazione popolare”.
Perché è così importante rinvigorire le proprie radici?
“Perché quando la gente perde se stessa, le sue abitudini ancestrali e ciò di cui vive è costretta ad emigrare, donne e bambini in primis. Nel nostro paese le donne sono quelle che soffrono di più durante le migrazioni, perché vengono stuprate e i loro diritti sono violati continuamente. Il nostro ruolo non viene riconosciuto nemmeno quando si parla di cibo ed educazione alimentare, anche se siamo noi in casa ad occuparci di tutto. Non possiamo essere padrone di terreni o avere accesso diretto ad essi, non possiamo ereditarli se non attraverso un uomo o il marito”.
Com’è possibile una cosa del genere in un popolo che riconosce la sacralità della donna e la fa andare di pari passo con quella della Madre Terra?
“Il problema non è nel nostro popolo, dove esiste la dualità e uomini e donne hanno gli stessi diritti. E’ stato l’avvento del sistema capitalista ad introdurre la distinzione di genere, le multinazionali hanno portato la loro cultura e le loro religioni, stabilendo che la donna deve dipendere dall’uomo. In campagna elettorale ci usano, per il resto il rispetto è pari quasi a zero. Attraverso l’Università ci stiamo riavvicinando all’accesso alla terra, coltivandola direttamente e preservandoci dalle violazioni fisiche e psichiche. Se difendiamo la Madre Terra, indirettamente difendiamo la vita della donna, per questo è importante continuare la nostra lotta in difesa di entrambe, c’è un filo che ci unisce e l’una dipende dall’altra”.
Ti sei laureata con una tesi su sicurezza alimentare e difesa del territorio. Su quali aspetti, nello specifico, ti sei concentrata?
“Nel mio percorso di studi ho sempre focalizzato l’attenzione sul rapporto Terra – Donna e, in particolare, ho approfondito la figura della donna come seminatrice, come colei che si prende cura delle coltivazioni e dell’economia familiare nell’ottica del buen vivir, che cucina quello che produce e che solo se poi qualcosa avanza pensa a venderlo, per acquistare i cibi che non può creare.
L’impressione generale è che le nuove generazioni si stiano scollegando dalla terra e dalle tradizioni un po’ ovunque. Succede anche da voi?
“Purtroppo si, anche se è un processo un po’ più lento. L’avvento delle multinazionali con le loro promesse di soldi e lavoro sta intaccando anche la nostra cultura. Di recente, ad esempio, hanno costruito una centrale idroelettrica senza nessun consulto con la popolazione, ma tramite accordi con il Governo. Ci hanno privato dei nostri beni naturali per installare antenne e tralicci. Solo ultimamente si è avviato un dialogo tra noi e le autorità del Guatemala, ma ci sono voluti ricorsi e manifestazioni perché la Corte Costituzionale dichiarasse che noi ci siamo, che esistiamo e che dobbiamo essere tutelati. E’ stata solo una piccola vittoria, la strada è lunga, ma è già importante che si rendano conto che ci devono consultare”.
Un popolo con una storia antica come il tuo come guarda al nostro?
“Purtroppo, anche se le coltivate, avete perso il contatto con la terra e il concetto di essa come madre amorevole. Andate a comprare tutto al supermercato, pochi pensano a consumare quello che seminano. Sarebbe importante cominciare a diffondere l’idea di “decolonizzazione”, uscire dal paradigma capitalista e capire una volta per tutte che l’unico scopo delle compagnie è accaparrarsi tutto quello che siamo e che abbiamo”.