“In piazza D’uomo”: abbiamo la lingua più bella del mondo e la maltrattiamo

12
Foto tratta dalla pagina FB: "Amori grammaticalmente scorretti"

Con la tesi in tasca ma scritta, talvolta, in un italiano che neanche in terza elementare. Questa, stando alle testimonianze di 600 professori universitari, la condizione di molti dei laureandi italiani d’inizio millennio.

E infatti 8 accademici della Crusca, 4 rettori, uno stuolo di storici, filosofi, sociologi matematici, professori di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri hanno firmato una lettera con un doppio intento: denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari e invitare governo e Parlamento a mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo, ed è proprio il caso di dirlo, dall’abc: “Ortografia, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano”.

È chiaro ormai da molti anni – si legge nella lettera – che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente […] Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”.

Benché preoccupante, la notizia non mi ha purtroppo sorpreso: anche spulciando tra i dati dell’ultimo rapporto Ocse-Pisa, sulle competenze dei quindicenni di mezzo mondo  era parso chiaro che gli adolescenti italiani non facessero una bella figura, mostrando gravi lacune, guarda caso, in italiano. E sempre secondo l’Ocse un italiano su tre, benché sappia scrivere il suo nome e sappia aggiornare il suo profilo Facebook, non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”. È cioè un “analfabeta funzionale” e anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.

Ecco. Siamo al paradosso che scriviamo (male) tanto di noi e non sappiamo leggere (cioè ascoltare e interpretare) ciò che scrivono gli altri. Sì. Scriviamo tanto: mai come di questi tempi si è scritto e si scrive su mille formati e con mille strumenti. Mai come di questi tempi, siamo presi dalla fregola di comunicare e di far conoscere le cose nostre, rinunciando però a capire, a conoscere e approfondire ciò che viene dopo un titolo e una foto.

E dove preferiamo “mettere lingua”, in questi tempi iper-comunicativi e iper-connessi? Nelle chat di gruppo, via sms, sui social media. Ed è qui infatti che le prime tre persone del verbo avere spesso si ritrovano al presente abbandonate a se stesse e senza l’acca (poverine!); che i perché sono costretti a mostrarsi con l’accento al contrario (meschini!); che i “se” si vedono, loro malgrado, associati a un imbarazzato condizionale (tapini!); che i modi di dire prettamente dialettali si divertono a strapazzare le forme corrette dell’italiano (“Adesso lo telefono!”).

E sì che abbiamo la lingua più bella (ricca, completa, attraente) del mondo. Eppure non sono pochi (anche tra chi ricopre ruoli e incarichi pubblici) quelli che di fronte a plateali strafalcioni grammaticali, invece di sprofondare… il naso nell’abecedario, preferiscono incolpare il famigerato T9 o la fretta della digitazione. Ma a me viene difficile credere che un’acca messa al posto giusto, che un congiuntivo bene usato, che un verbo usato correttamente in modo transitivo facciano perdere chissà quanto tempo, riducano l’appeal nei confronti del pubblico o nascondano un post all’algoritmo che domina un social network.

E allora ben venga il “passo indietro”, il ritorno all’abc, le lezioni di recupero su accenti, apostrofi, passati remoti, pronomi, punteggiatura, avverbi (in questi giorni anche il Corriere ne propone uno), così come auspicato dai 600 docenti universitari firmatari della lettera al governo e al Parlamento. Ben vengano gli insegnamenti dei “vecchi” maestri che, 30 anni fa, passavano ore e ore a farci fare “dettati” e a chiederci riassunti dei testi del sussidiario. Tutta ginnastica utile a partorire pagine e scritti più pensati, corretti e rispettosi delle regole.

Regole grammaticali, in primis. Ma anche regole logiche che rappresentano (meglio: dovrebbero rappresentare) un’unità territoriale e una condivisione linguistica. Regole, sì: quell’insieme di convenzioni civili verso cui noi italiani, fin da piccoli, avvertiamo un certo fastidio.