Aminata riposa nella parte islamica del cimitero di Ragusa Ibla. A fianco altre lapidi: non si sa chi ci sia sepolto sotto, sono uomini e donne morti in mare come lei. Meno di una quindicina, provenienti da altre tragedie della disperazione.
Questa mattina è stato l’Imam di Ragusa, Radwen, a officiare il rito all’ingresso del cimitero: l’ultimo saluto alla donna che non ce l’ha fatta ad attraversare il Mediterraneo, ma che ha protetto i figlioletti fino alla fine.
In quel barcone era insieme ai due bambini: il maschietto di sei anni, la femminuccia di nove. Polizia e Save the Children hanno potuto individuare i parenti grazie a un’accortezza della mamma.
La donna, 37 anni, aveva cucito in una felpa una rubrica telefonica. Quando la nave dell’organizzazione umanitaria ha avvistato il barcone, dieci giorni fa, lei era già morta. È stata schiacciata, probabilmente nella ressa per ammassare quanti più essere umani in un pezzo di legno galleggiante. I suoi bambini sono ora ospitati in una struttura di Ragusa, in attesa delle decisioni del Tribunale. La Prefettura ha deciso, insieme alle autorità cittadine e provinciali, di celebrare un funerale molto semplice, ma con una forte presenza delle Istituzioni.
È stato il prefetto, Maria Carmela Librizzi, confermando la grande sensibilità e il profondo rispetto che la contraddistinguono, a spiegare il senso di questa scelta: “Una storia molto triste, ma nello stesso tempo piena di speranza. Perché questa donna aveva avuto lungimiranza, prevedendo di non potercela fare nel viaggio ha deciso di cucire i numeri di telefono nella felpa dei bambini. Voleva dare loro un futuro. Ecco, è una grande donna quella a cui abbiamo dato oggi il nostro saluto. E lo meritava tutto”.
Presenti i responsabili delle Forze dell’Ordine della provincia, della Capitaneria di Porto, il vescovo, Carmelo Cuttitta, i sindaci di Ragusa e Pozzallo, Federico Piccitto e Luigi Ammatuna. Le suore del Sacro Cuore, che ospitano i due bambini, i volontari di Save the Children.
Un grazie di cuore dall’Imam, che ha voluto sottolineare la grande generosità della gente iblea: “Ho visto solo del bene da parte delle forze dell’ordine, della gente. Vi ringrazio a nome di tutti i musulmani per quello che fate”.
Un rito breve, ma carico di significato, con l’invocazione ad Allah, una preghiera per tutti i defunti. Poi la tumulazione.
I due piccoli hanno seguito tutta la cerimonia: ad abbracciarli un loro fratello più grande, Habib, che vive da qualche anno in Italia. Oltre al papà, c’era anche lo zio materno, Mussa.
Una storia terribile quella che è emersa: mancava poco per l’ottenimento del ricongiungimento familiare. Aminata sarebbe poi potuta arrivare in Italia, a Jesi, dove il marito vive e lavora da sei anni.
Marcos Lopes del Gus di Jesi, una Onlus, spiega: “Papà Charles lavora con noi da cinque anni. Non sapeva nulla del viaggio, ci diceva che era da un mese che non riusciva a contattare la moglie: lui fa tre lavori diversi ed il suo obiettivo era di fare arrivare anche il resto della famiglia in Italia, ci stavamo lavorando”.
“Mia sorella mi ha chiamato dalla Libia, mi ha detto che stava partendo, le ho detto di non farlo, non mi ha ascoltato. Poi mi ha chiamato la Polizia”.
Il racconto straziante di Mussa, il fratello di Aminata, che vive a Como. Lui non riesce a trattenere le lacrime, si allontana dai nipotini per non farsi vedere, e piange a dirotto.