In realtà quel nome, Goro, l’avevo già sentito. E la memoria mi ha riportato ai viaggi che, poco più che bambino, facevo con la mia famiglia per andare in vacanza. E l’autoradio dell’Alfa 33 di papà rimandava le voci dei cantanti italiani Anni ’60. Tra queste, c’era pure lei, la rossa Milva, che mia madre, ogni volta, ci teneva a definire, appunto, “la pantera di Goro”. Grande cantante e raffinata attrice, la Milva. L’ho vista dal vivo più di una volta, al Teatro Donizetti di Bergamo: cantava e recitava Bertolt Brecht. E chissà che cosa pensa, oggi, lei che ha portato in scena Brecht, di quei signori che hanno tirato su le barricate, impedendo a una dozzina di donne e otto bambini africani di trovare un rifugio.
Oggi, a Goro vivono circa 4mila abitanti. Siamo nel Polesine, versante ferrarese: territorio rosso per tradizione, popolato di gente che le tragedie (come l’alluvione del ’51 o le deportazioni nazi-fasciste) e la povertà le hanno conosciute sulla propria pelle. E di quei 4mila abitanti, solo 59 sono stranieri (qualcosa più dell’1% della popolazione residente. Qui).
A dirla tutta, a me poco importa sapere se quelle barricate siano figlie della mancata comunicazione che avrebbe dovuto avvertire la popolazione dell’arrivo dei profughi. O se invece, come dice il Prefetto: “sono due anni che facciamo riunioni e lancio appelli perché diano una mano a gestire l’emergenza: soprattutto ai sindaci dei comuni che, come Goro e Gorino, non ospitano alcun migrante“. E non importa saperlo perché, un comitato arrabbiato di cittadini (aizzati da politici senza scrupoli) ha di fatto cacciato 20 (venti, non 200) persone in cerca di riparo, donne e bambini senza nulla, alla deriva.
A me sembra più utile chiedersi – ora che la protesta ha “vinto”, ora che l’egoismo di pochi ha prevalso sulle ragioni solidali dei molti – come evitare che i bancali, i vecchi mobili e i tristi slogan di Gorino diventino un pericoloso precedente. O costituiscano la manifestazione palese e irrisolvibile, come ha scritto Ezio Mauro su la Repubblica (link: http://www.repubblica.it/politica/2016/10/26/news/la_solitudine_dell_indigeno_italiano-150593360/?ref=HRER2-1), di quanto “la superficie sottile della civiltà italiana – la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale – si stia sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all’interno delle grandi città. Che si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione”.
Certo. Serve coraggio per guardare dentro l’impoverimento economico e morale prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e degli altri. Una crisi – la più lunga del dopoguerra – che ha depauperato non solo i nostri salvadanai ma anche le nostre certezze, dandoci l’impressione vivida di stare dentro un mondo fuori controllo, senza governo, dove la globalizzazione è vista come minaccia e la politica come il terreno di conquista dei più furbi.
Ma c’entrano qualcosa con il coraggio quelle barricate? È coraggioso scendere in strada e impedire che venti poveracci vengano ospitati – temporaneamente, per altro – in cinque delle 30 stanze del bar-ostello del paese?
Non è forse più coraggioso scegliere di trasformare “il problema” in opportunità? Non è più coraggioso che i parroci (a Goro come a Catania, a Cuneo come a Lecce) seguano l’esempio di Papa Francesco e urlino nelle omelie contro chi nega ospitalità ai profughi? Che le istituzioni, centrali e locali, creino le migliori condizioni affinché i migranti non siano solo accolti e “spesati”, ma che possano anche “impiegare” al meglio il loro tempo?
Non è più coraggioso che siano i cittadini, per primi, anche in assenza di direttive prefettizie, comunali, statali, a muoversi? A trasformare quella che troppe persone – vittime della disinformazione o prese in giro da capipopolo irresponsabili – percepiscono come una drammatica invasione, in un’occasione di crescita sociale ed economica?
Perché è proprio la crisi a chiederci questo passo. A chiederci più coraggio e maturità, nel trasformare i moti di pancia in vie d’uscita ragionate e percorribili. Crisi, d’altronde, questo significa. E non solo secondo l’etimologia greca. E allora, anziché le barricate, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere ai profughi di diventare parte attiva della comunità.
Come? Dite che sto (re)citando il classico mantra del buonismo catto-comunista? Beh, a smentire l’impressione, qualche buona pratica si trova, a nord come a sud dello Stivale. Per esempio, in Brianza, si organizzano cene tra residenti e migranti ospitati. In Toscana, si programmano corsi di lingua reciproci, in modo che chi arriva possa conoscere le parole di chi li sta accogliendo e chi ospita possa meglio comunicare come si vive e come ci si comporta a chi frequenta le nostre piazze. Si chiama condivisione. Ed è dalla condivisione del sapere, delle lingue, delle conoscenze, delle esperienze che molti giovani, oggi, stanno battendo la crisi, creando lavoro (per sé e per altri), dando cioè valore (anche) economico agli scambi.
E ancora: a Treviso, ha avuto grande successo un progetto in cui oltre 30 richiedenti asilo del territorio hanno svolto attività di pubblica utilità e imparato un mestiere. Iniziative semplici, come la coltivazione di orti, la produzione lattiero casearia e la cura del verde, attraverso cui locali e migranti hanno scoperto che vivere insieme è possibile e conveniente. Nella piccola Riace – cittadina calabra dei famosi bronzi – rifugiati politici e richiedenti asilo, ormai da qualche anno, hanno evitato l’abbandono dei borghi e portato opportunità di impiego, anche per gli italiani, rimettendo in piedi le piccole botteghe artigiane. E infatti il sindaco di Riace si è reso disponibile ad accogliere le donne respinte a Gorino: «Negli ultimi anni abbiamo accolto decine di migranti fornendo loro anche un alloggio e offrendo loro anche la possibilità di seguire corsi di formazione professionale per l’avvio di attività lavorative». (E, detto tra parentesi, gli immigrati a Riace oggi sono 500 su un totale di 1.800 abitanti).
Insomma, esempi di coraggio, belle storie come queste, ce n’è molte in giro per l’Italia. In quell’Italia abitata da gente perbene, normale, matura. Gente che sa che chiudersi in camera – o dietro cataste di mobili e pallet – rifiutando il confronto con il mondo là fuori è un atteggiamento da bimbini impauriti e acerbi di vita. Gente che conosce la pietà da usare nei confronti di donne e bambini che fuggono da guerra e fame. Gente che sa che nel baratro del razzismo non si precipita per caso, ma ci si avvicina piano piano. Una barricata alla volta.