Inkivu ‘entra’ all’Università. Il prof. De Filippo: “Come Twitter e radio possono salvare la vita”

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Alessandro De Filippo insegna Storia e critica del cinema e Televisione e linguaggi multimediali al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Ha inserito l’esperienza dei giovani ragusani in un laboratorio molto partecipato.

Il progetto Inkivu ‘entra’ all’Università. Com’è nata l’idea e come s’inserisce nell’ambito dell’attività didattica?

Il progetto Inkivu “ha fatto irruzione” all’Università come laboratorio sui media. Oggi, in burocratese, le chiamano AAF, che sta per Altre Attività Formative: servono a rafforzare le spalle – forse un po’ esiline – del Corso di Laurea in Scienze e Lingue per la Comunicazione, con un po’ di sana pratica di comunicazione sul campo. Dopo aver studiato la teoria sui libri, la pratica aiuta a capire che la comunicazione non esiste in astratto, va usata. Come una zappa o un cucchiaio. Mi è sembrato interessante, per questo, proporre il caso di studio dell’Associazione Wartoy, che in Congo ha avviato da anni un progetto di Formazione all’informazione. L’uso di Twitter e della Radio possono servire a informare gli abitanti della regione del Kivu di pericoli e problemi: una strada interrotta, un posto di blocco dei guerriglieri possono infatti essere comunicati in tempo reale. Un medium nuovissimo, come il social network Twitter si integra con un altro medium già consolidato, come la Radio.

Qual è stato il riscontro da parte degli studenti?

Il riscontro è stato sorprendente: oltre studenti 100 hanno partecipato con entusiasmo al laboratorio, elaborando le notizie su quel territorio. Le hanno tradotte in inglese e francese, le hanno registrate in forma di notiziario radiofonico, lavorando in gruppi di 15 componenti, su diversi temi, selezionando le informazioni e rendendole intelligibili, in un sistema complesso di relazioni e contrapposizioni tra gruppi paramilitari, popolazione civile e nazioni confinanti, con interessi economici e politici sulla zona. Dopo una premessa storico-politica, che ha fornito il contesto operativo su cui occorreva agire, si sono potute articolare in maniera efficace le informazioni, in base a priorità di urgenza e di importanza. Ma, indubbiamente, il valore principale di questa attività di laboratorio è quello di non essere stata una mera esercitazione accademica, ma un’azione comunicativa utilizzata davvero nel Kivu, dopo la conclusione del laboratorio. Le notizie elaborate dai nostri studenti sono state così comunicate nella regione, con reale beneficio delle popolazioni locali.

Si pensa spesso che ‘andare in missione’ sia solo costruire case o dar da mangiare. In questo caso, invece, si vuol contribuire positivamente ad aiutare queste popolazioni, in un modo ‘diverso’.

Giovanni Piumatti, missionario in Congo dal 1971, ha partecipato a una tavola rotonda presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche, nella quale ci ha spiegato come il primo passo che l’Occidente deve fare verso l’Africa debba essere uno sforzo di conoscenza. L’idea dell’europeo che va in missione a salvare gli africani del villaggio, contiene in sé i pregiudizi tipici di una mentalità coloniale. Non è di questo che c’è bisogno, secondo lui. C’è bisogno invece della disponibilità al confronto, che è la prima fase di qualsiasi processo di comunicazione. Sull’Africa è in corso una costante campagna di disinformazione, mirata al rastrellamento di fondi. I progetti di cooperazione, spesso, invece di piegarsi alle esigenze dei beneficiari – che restano largamente ignote o misconosciute – servono a finanziare la sopravvivenza delle stesse ONG che propongono i progetti. Ciò che occorre fare, quindi, preliminarmente, è proprio conoscere le esigenze dei diversi territori, in modo da poter modulare gli aiuti in maniera mirata, intelligente, senza sprechi. Ma c’è un passaggio fondamentale nella riflessione di Giovanni Piumatti, ed è quello sull’uso ricattatorio del senso di colpa, da parte dell’Occidente, che distrae dai veri problemi dell’Africa e spinge nella direzione di soluzioni semplici e superficiali, come la donazione di denaro tramite SMS, solo per fare l’esempio più lampante.

La zona del Kivu è ricchissima di coltan, un materiale indispensabile per la fabbricazione di telefonini e componenti elettroniche in genere. Quali sono gli interessi dei Paesi confinanti a quella regione del Congo, come il Rwanda e l’Uganda?

È una zona piena di conflitti striscianti, che spesso si infiammano in forme di guerriglia o di guerra dichiarata, come è avvenuto nel 1994, con i genocidi di Hutu e Tutsi in Rwanda. In quegli anni, tutta la regione ha mostrato di essere una polveriera pronta a esplodere. Sul lago Victoria, a centinaia i cadaveri galleggiavano, fino ad approdare sui nostri schermi televisivi, così come le colonne sterminate di progughi in fuga. Anche il cinema si è temporaneamente e liminarmente occupato di questi temi, con film a soggetto di una certa rilevanza. Oggi la situazione di tensione del Congo con il Rwanda e l’Uganda permane, anche perché questi due Paesi finanziano gruppi di ribelli. Anche il Sud del Sudan è in una situazione difficile, quindi i rischi sono tanti. Non c’è stabilità politica, c’è precarietà economica, ci sono movimenti interni alla regione, sia di truppe che da parte della popolazione civile spaventata. Non sono certo un esperto della situazione della zona – e su questi temi sarebbe molto più utile ascoltare Giovanni Salvaggio e Alessandro Callari – ma ciò che mi colpisce di più, da studioso di comunicazione audiovisiva, è l’immensa operazione di rimozione mediatica di questi temi. Semplicemente, non se ne parla.

Sarebbe interessante analizzare pure il tema della rappresentazione mediale della migrazione: l’immagine di invasione della ‘nostra terra’…

Questo è un tema che sto studiando da un paio d’anni. Ma è un discorso molto complesso, che va approfondito separatamente rispetto ai problemi del Kivu. Ciò che avviene in questa regione del Congo non ha, sulla breve durata, alcuna ricaduta sui flussi migratori che arrivano sulle nostre coste. Ma la destabilizzazione dell’Africa centrale comporterà inevitabilmente degli effetti a lungo termine sulle migrazioni. Il nostro obiettivo, anche come Università degli Studi di Catania, è fare luce il più possibile sulla situazione, per cercare delle soluzioni che non ci pongano in futuro di fronte a un’ulteriore emergenza umanitaria. Oggi, si può intervenire politicamente, forse. Domani, il rischio è sempre lo stesso, che cantino i fucili.