Mi chiamo Omran, ho cinque anni e sono vivo.
Di quello che è successo ricordo poco. Stavo giocando. Poi un fischio, un boato, il buio. È venuto giù tutto. Non so quanto tempo sia passato, ma fortunatamente sono vivo. Mi hanno tirato fuori. E adesso sono qui. Respiro. E, anche senza ricordare, benedico il sangue che sento colarmi dalla testa e dalla mano. Se lo sento, lo assaporo e lo annuso, significa che sono vivo. Anche se non ricordo bene cosa sia successo. Davanti agli occhi ho ancora il buio.
Chissà se hanno tirato fuori anche i miei amici, da là sotto. Li sentivo piangere. Qualcuno gridava per il dolore, un altro chiamava la mamma, uno chiedeva da bere, uno respirava a fatica. Io sentivo freddo e singhiozzavo, in silenzio. Forse è stato quello. Forse sono stati i miei singhiozzi a salvarmi. Ho sentito una voce che diceva: “Qui, qui, c’è qualcuno qui”. Poi due mani mi hanno afferrato per le spalle, ne ho viste altre due spostare massi e travi.
E poi è tornata la luce. Già, la luce. C’è, la vedo. Ma non distinguo ancora bene i colori. Ho ancora tanto buio davanti. Guardo ma non vedo bene. So di essere vivo perché me lo dicono il freddo di questa poltroncina sotto le gambe e la polvere che mi pesa addosso. Ma non vedo bene.
Adesso, magari, ti diranno che proprio il mio sguardo, fisso e cieco, è il simbolo di questa guerra senza fine. L’immagine dell’orrore. L’icona della tragedia. Può essere che te lo dicano. E può anche essere che sia vero, non so. Io so solo che il mio è lo sguardo di un bambino di cinque anni: innocente e spaventato. Com’è normale che sia. E com’era anche prima che venisse giù tutto: uno sguardo innocente e spaventato.
No, credimi: non voglio scuotere le coscienze di nessuno. Non voglio proprio scuotere nessuno. Non voglio far male a nessuno: a me il male è caduto addosso e non lo auguro agli altri. E poi io non capisco nulla delle cose di voi adulti. A me piace giocare, con i miei amichetti. Stavamo giocando al futuro, prima che venisse giù tutto. Stavamo giocando a immaginare cosa ci piacerebbe fare da grandi. Io vorrei fare il muratore, per rimettere in piedi le case della gente della mia città. Giocare e immaginare, solo questo spetta ai bambini.
Solo una cosa vorrei chiederti, se ancora sei lì a incrociare i miei occhi. Ti prego, trova qualcosa perché anche io, come tuo figlio (o tuo nipote o il tuo cuginetto), possa continuare a giocare. Solo a giocare. Ci deve essere una soluzione, no?
E se un giorno riuscirò a uscire da qui, prima che venga giù tutto un’altra volta, se riuscirò a scappare da quest’inferno, a cercare di vivere e giocare da un’altra parte, magari vicino a casa tua, ti prego, non ricacciarmi indietro, non chiudermi la porta in faccia. Lascia che io possa giocare con tuo figlio (o con tuo nipote o con il figlio del tuo amico). Giocando, noi bambini non ci sentiamo diversi gli uni dagli altri. Giocando, impariamo il rispetto delle regole e degli altri. Impariamo, insieme, che i problemi si risolvono parlando, senza prepotenze e senza far male a nessuno. Mamma mi diceva che ogni problema ha almeno tre soluzioni. E che solo alla morte non c’è rimedio. E io non sono morto.
Mi chiamo Omran, ho cinque anni e sono vivo. Per ora.