E come si arrabbiava se lo chiamavo Monsignore (o, peggio, Sua Eccellenza). Preferiva di gran lunga don Loris. Perché lui, Loris Capovilla, era così. Si sentiva così: un semplice don, un servo di Dio, della Chiesa e degli uomini. Anche a fronte di un curriculum ecclesiastico di una certa rilevanza: segretario particolare di Papa Giovanni XXIII; perito conciliare a fianco di Paolo VI; arcivescovo di Chieti-Vasto, “vescovo dei pellegrini” a Loreto. Fino a ottenere, nel 2014, la porpora cardinalizia. Un traguardo non cercato (ovviamente). Ma un dono venuto da Roma, dalla volontà di un Pontefice che lo ha davvero amato senza averlo mai incontrato: ritrovandoselo vicino nel modo di pensare, nell’amore per gli ultimi, nella visione ecclesiologica
Se n’è andato a 100 anni, don Loris. Ma se n’è andato giovane.
Giovane: di cuore e di mente. Un simbolo vivente di come la lettura (il suo ufficio era un’invidiabile miniera di libri), la scrittura, lo studio quotidiano, la disponibilità all’ascolto, la ricerca del dialogo e del confronto… siano strumenti in grado di tenere sempre fresca la memoria (la sua, di memoria, era elefantiaca, nel citare nomi e date), nonché la delicata materia di cui è fatto l’uomo.
Un monito costante a chi crede che sia l’età anagrafica a fare la differenza o, peggio, ad attribuire certi diritti per l’azione politica.
Già, la politica. Era questo il terreno prediletto dei nostri incontri. Fin dall’inizio, quando ebbi l’occasione di conoscerlo. Ero da lui per portargli un libro che il mio professore di storia medievale mi chiese di consegnargli, dopo aver letto sul libretto universitario che venivo dal paese vicino a Sotto il Monte, dove Capovilla si era ritirato nel 1989, a far da custode inflessibile e instancabile della memoria, del pensiero e degli insegnamenti di Papa Roncalli:
“Quindi studi alla Cattolica di Milano?”, mi chiese don Loris con quel suo inconfondibile accento veneto.
“Sì. Mi sto laureando in filosofia”
“Capisco. E di che Chiesa sei?”
“Ehm… come? Beh, ecco, in realtà ho qualche difficoltà a dichiararmi credente…”
“Bene. Allora le tue posizioni mi interessano ancora di più. E, dimmi, fai attività politica?”
“Sì, nel mio piccolo cerco di darmi da fare”
“Bravo. Fare politica è fare del bene agli altri. Ma per farlo in maniera compiuta, bisogna agire nel piccolo e nel quotidiano”.
Da allora cominciò una lunga serie di incontri, tra noi. Di quelli profondi, sinceri e lunghi. Arrivavo a Ca’ Maitino – nella casa natale di Giovanni XXIII – attraversavo le ombrose stanze ricche di cimeli e oggetti e pergamene papali, mi facevo annunciare dalle suore ed entravo nel suo studio. Lui alzava lo sguardo dai libri e dai fogli che occupavano il tavolo, mi veniva incontro e mi abbracciava. Senza offrirmi l’anello da baciare. Ma con affetto fraterno. Avvolgendomi in quel buon profumo d’incenso e di inchiostro. Poi, avvicinandomi un bicchiere d’acqua, mi diceva su quale argomento stava studiando o mi sottoponeva un articolo di giornale sul quale avremmo intrapreso la discussione.
Fu in uno di quei pomeriggi che seppi, per la prima volta e da lontano, dell’esistenza di Pozzallo. Città più che onorabile, agli occhi di don Loris, per aver dato i natali a un gigante politico come Giorgio La Pira. Fu in uno di quei pomeriggi che mi accostai al mistero della Chiesa:
“Don Loris, se mi posso permettere, come fa a starci bene uno come lei, dentro un’istituzione così rigida come la Chiesa?”
“Ricordati, Matteo, che la Chiesa è santa e peccatrice. Ed è fatta dagli uomini, con i loro deprecabili vizi e con le loro eccelse virtù. E poi, se ci guardi bene dentro, non è così chiusa come sembra, la Chiesa. A vederlo dall’alto il colonnato del Bernini, non ti pare che abbia la forma di due braccia che accolgono?”
E fu in quei pomeriggi che compresi quanta fatica dovette sudare il Papa Buono nel suo lodevole tentativo di riformare la Chiesa, tramite il Concilio Vaticano II. E benché io sapessi che a tenere le fila di quella riforma, dietro le quinte operavano la mano, la testa e le mosse di un uomo di lettere, scrupoloso, discreto come lui, don Loris mai usò la prima persona nel ricordare quegli eventi storici. Perché Capovilla era così: un progressista silenzioso, un riformatore gentile, un agitatore di anime cauto e dolce. Un Socrate con la tonaca, magro (mangiava sempre molto poco) e scavato in volto. Capace di mettere dubbi (quelli buoni) in chiunque avesse voglia di ascoltarlo. Capace di mettersi in dialogo con chiunque (laici, atei, comunisti: cioè “gli altri”, i diversi, i reietti di un tempo), per poter arrivare alla verità. Ma arrivarci insieme. Senza escludere nessuno. Senza slogan urlati o twittati sui social. Senza mettersi in prima fila. Senza far pesare la propria dottrina o il proprio credo.
Di don Loris ho la fortuna di serbare molti aneddoti (sulle pantofole di Papa Giovanni, per esempio). E molti ricordi. Come quando lo portai a inaugurare la bottega equo e solidale che, con altri giovani, avevo aperto. Come quando gli portai in visita mio figlio e quando seppe che ero diventato modicano, gli si fecero gli occhi lucidi: “Modica, la più bella città barocca di Sicilia. Fiera vicina dell’onorabile città di Pozzallo che offre ai migranti accoglienza e ospitalità”. Come quando, nell’ultimo incontro, lo scorso gennaio, si commosse per la scomparsa di mio nonno centenario e mi sussurrò che i suoi cento anni, il 14 ottobre, li aveva voluti festeggiare proprio con i rifugiati (i diversi, i rifiutati, i reietti di oggi). Io gli chiesi, vedendolo provato, come stessero le sue gambe. E lui rispose, a suo modo: “Non devo correre, l’importante è che funzioni la testa”. E consegnandomi l’ennesimo scritto, aggiunse: “Vivo i miei giorni del tramonto assistendo al rinnovarsi dell’aurora della Chiesa. Ed è motivo di consolazione, anche se so che ogni giorno, ogni notte è buona per partire. Tantum aurora est!”.
Ora che se n’è andato, di don Loris accarezzo la medaglia con il suo stemma episcopale. E se da un lato mi dolgo di non esserci stato per un ultimo filiale abbraccio, dall’altro ringrazio e sorrido, per l’onore di aver camminato a fianco di un grande e umile padre della Chiesa. Come qualcun altro ha scritto, meglio e prima di me, nel giorno della sua dipartita: “Capovilla lascia orfani molti figli – uomini e donne, giovani e anziani, cristiani e non cristiani – nei cuori dei quali ha deposto un scintilla, un dubbio, un seme d’amore, l’esempio di uno slancio generoso ad communem utilitatem”.