Un settore che paga innanzitutto la sua poco propensione all’ammodernamento e all’innovazione per quanto concerne la produzione, mentre, per la fase della commercializzazione ha esercitato una pesante zavorra la sua lunga filiera e la devozione all’individualismo. Due fattori che vanno indagati in un momento in cui la nostra agricoltura sta attraversando uno dei peggiori momenti che si ricordino, reso ancor più grave dalle vicende degli ultimi due anni, anche perché è in crisi l’intera economia. Questione produttiva: le aziende agricole locali non hanno saputo (o potuto) cambiare filosofia perché abbandonate sul piano della ricerca e della sperimentazione ma anche della programmazione. In un mercato sempre più globale appare impresa ardua non affidarsi a indagini di mercato serie e scientifiche per programmare la produzione agricola e lasciarla invece in mano all’iniziativa individuale del singolo produttore o di sparuti gruppi di produttori. Per quanto concerne la commercializzazione il ricorso all’associazionismo non è più un optional ma un passaggio obbligato per contrastare lo strapotere della grande distribuzione. L’esempio arriva dal Consorzio Melinda dove i produttori del Val di Non sono riusciti, pur rappresentativi di un territorio piccolo e poco esteso, a conquistare l’82% del mercato operando in maniera unitaria e coesa. In questo senso la politica deve esercitare tutto il suo peso per convincere i produttori ad organizzarsi in consorzi e abbandonare la strada dell’individualismo.
Nelle politiche anti crisi si fronteggiano due logiche, una basata spesso sul puro salvataggio dell’esistente, l’altra sulla concessione di stimoli alla ripresa e cioè ad aiutare le imprese a essere pronte al momento della fine della crisi. Su questo versante non c’è unità di vedute e d’intenti: ognuno ha la propria ricetta. Ecco che servirebbe una “nuova” politica per l’agricoltura che tenesse presenti i fatti nuovi emersi in questi frangenti:
a) il crescente fabbisogno alimentare mondiale, oggi e dopo la crisi;
b) la necessità di contrastare e compensare la variabilità/il cambiamento del clima riducendo il rischio tecnico della produzione;
c) la sfida ambientale e le conseguenze sulle tecnologie produttive;
d) le questioni energetiche;
e) la crescente volatilità dei mercati.
In sintesi, si pone con grande evidenza il problema di passare da una politica prevalentemente di mero aiuto e sostegno a una che punti ad azioni di stimolo alla riorganizzazione del settore agricolo e di sviluppo della sua produttività per fargli recuperare competitività ai diversi livelli.
È chiaro che questa linea politica dev’essere compatibile con gli accordi internazionali in essere e con le linee di tendenza della politica commerciale mondiale, anche se al momento questo tema sembra essere stato accantonato da tutti i paesi. Allo stesso tempo, considerando realisticamente che le risorse da destinare all’agricoltura nella nuova programmazione europea saranno al massimo pari a quelle attuali, ma più probabilmente inferiori, emerge con chiarezza che la scelta fra sostegno e stimolo si farà sempre più necessaria e inevitabile. Una visione di ampio respiro vorrebbe che prevalesse il secondo indirizzo, andando a recuperare risorse dai pagamenti compensativi e dalle misure di mercato per destinarli a un’imponente strategia di rinnovamento del sistema agricolo europeo, puntando su strutture e infrastrutture, sul capitale umano, sulla ricerca e sullo sviluppo del trasferimento dei suoi risultati al settore produttivo.
Il tempo è scaduto, basta indugi: è il momento di scegliere a favore del miglioramento dei processi produttivi, secondo una logica che forse penalizza il sostegno al reddito attuale, ma che può garantire il futuro a quell’agricoltura di cui l’Europa e l’Italia non possono fare a meno nel nuovo contesto mondiale.