Quando finisci di leggere “Rimetti a noi i nostri debiti” ti chiedi come un libretto all’apparenza così piccolo possa contenere delle storie così grandi. La risposta è che a fare grande questo libro sono le storie di queste persone, e non personaggi, che di inventato hanno solo il nome.
Perché Lilli Carbone queste storie le ha vissute in prima persona nei lunghi anni in cui ha lavorato nei servizi sociali di Scicli. Storie di violenze, abusi, di povertà ma anche di indifferenza, solitudine. E a pagarne le conseguenze quasi sempre sono i più deboli, i bambini e gli anziani. E le ha volute raccontare, come ci spiega nell’intervista, per condividere con gli altri il peso di tanta sofferenza ma anche per dare una possibilità di riscatto a queste persone con cui la vita è certamente in debito.
“Desideravo rendere omaggio a queste persone perché se io ho dato loro dieci ho ricevuto mille. Sembrerà strano ai più ma anche e forse soprattutto tra quella gente che non aveva nemmeno un briciolo di cultura, in cui mancavano le norme basilari di vita quotidiana, ho trovato uomini, donne e soprattutto bambini che mi hanno arricchito immensamente e hanno cambiato la mia visione della vita che prima di fare questo lavoro era una e che dopo è stata un’altra. Quindi era giusto fare uscire dall’ombra queste persone che non possono essere confinate in un quartiere ghetto, in un angolo del nostro Paese dove li chiudiamo, metaforicamente, per evitare che ci ‘sporchino’ con le loro vite imperfette”.
Perché la scelta di questo titolo: “Rimetti a noi i nostri debiti”?
La scelta del titolo non è stata facile ma poi questo titolo, che si rifà ai versi del Padre Nostro, è sembrato il più adatto anche per comunicare il messaggio che desideravo dare con questo libro. Perché dietro questi versi c’è la richiesta del perdono, ma non solo da parte dei protagonisti ma a chiedere perdono dobbiamo essere anche tutti noi per alcune scelte che facciamo nella nostra vita e che possono anche causare del dolore agli altri ma anche per il fatto che molto spesso giriamo la faccia dall’altra parte perché è più facile fare finta che queste situazioni non esistono piuttosto che affrontarle. Nessuno è innocente insomma tutti siamo responsabili di ciò che accade nella porta accanto…
A proposito di questo atteggiamento come hanno accolto i tuoi concittadini questo libro che mette loro dinanzi alla condizione di non potere più far finta di non sapere che esistono queste storie?
Io devo dirti che sono stupita perché non mi aspettavo un simile riscontro. Non solo in termini di partecipazione alla presentazione con numeri incredibili ma il riscontro più importante è quello della lettura del libro. Questo libro infatti lo stanno leggendo gli intellettuali ma anche le ragazzine di 15 anni ed era proprio questo il mio obiettivo; realizzare una piccola opera che potessero leggere tutti. E comunque gli sciclitani sono sempre stati molto generosi. Sono state tante le famiglie che in questi anni hanno aperto le porte delle loro case per accogliere bambini in affidamento. A volte anche senza tanto preavviso perché tutto doveva avvenire rapidamente per il bene del minore. Scicli, lo voglio ricordare, è stato il primo comune che dopo la legge dell’84 sull’affidamento familiare si è subito adoperato per avere il proprio regolamento. E a Scicli ci sono state le prime famiglie che hanno preso in affidamento dei bambini. Io e mio marito abbiamo dato il via ma dopo di noi ce ne sono state tante.
Un altro aspetto interessante che emerge dal libro è la presenza attenta dei servizi sociali. Tu e le tue colleghe avevate a cuore le sorti di queste persone, le loro storie diventavano un po’ le vostre ma diciamo che questo purtroppo non sempre è così…
Ho avuto la fortuna di lavorare con colleghe che avevano il mio stesso entusiasmo e la mia stessa visione della vita. Ma capisco anche chi ad un certo punto di questo lavoro frappone una barriera perché è necessario altrimenti si viene fagocitati dal dolore degli altri e dalle situazioni che realmente tolgono il sonno, però sono dei momenti che capitano a tutti nel corso di questo lavoro dove si rischia di andare in cortocircuito perché vivere la sofferenza degli altri non è una cosa semplice. Ma nel nostro gruppo ci ha sempre sostenuto l’interesse per la persona che non è una cosa scontata. Chi orbita in questo campo se non ha l’interesse per la persona in se non fa bene questo lavoro. Devi essere innamorato dell’essere umano sotto ogni forma, se c’è questa forma di amore che si esplicita poi non solo nell’ambito lavorativo ma anche in quello personale, nei rapporti con gli altri allora puoi lavorare bene con queste persone.
Molto spesso come abbiamo i protagonisti di queste storie sono dei bambini che loro malgrado sono vittime dirette o indirette di scelte sbagliate fatte dai genitori. Se leggere certi episodi fa male, cosa hai provato nel viverli in prima persona e poi, in un certo senso, riviverli quando li hai raccontati?
Ho lavorato sempre nel campo dei minori. Per cui mi sono occupata di abusi, famiglie devastate. Ho lavorato moltissimo in collaborazione ed efficacia con il Tribunale dei Minori. Quindi ho raccontato le storie che ho vissuto più da vicino e che mi hanno colpito. Perche’ se il campo dei minori è delicatissimo e certamente colpisce tutti perché siamo genitori, nonni e quando sentiamo storie di abusi e maltrattamenti su un bambino è come se ci dessero un pugno allo stomaco, dando uno sguardo a 360 gradi anche gli anziani, i tossici, i disabili hanno alle spalle storie drammatiche. Purtroppo sono sempre i più deboli a pagare le conseguenze del disagio. Lavorando in equipe quindi ho avuto modo di avere uno spaccato
L’ultima storia che chiude il libro è certamente la più emblematica perché sfata la convinzione che il disagio si annida solo nelle famiglie povere, non acculturate. Ed invece oggi sappiamo che non è così, che anzi molti dei ragazzi che hanno problemi sono figli di genitori che li hanno riempiti di soldi ma che sono assenti nella loro vita. Era questo il messaggio che volevi che arrivasse ai tuoi lettori?
È una storia simbolo perché il panorama del bisogno, del disagio è cambiato. Nell’ultimo periodo in cui ho lavorato nei servizi sociali infatti sempre di più trovavamo storie di questo genere; in famiglie che erano considerate perfette ma che di perfetto poi avevano poco. Ma questo non vuole dire che prima non ci fossero queste storie ma si riusciva ad occultarle prima che arrivassero ai servizi sociali. Con l’introduzione nelle scuole delle equipe, si è cominciato a parlare di più del fenomeno degli abusi, dei maltrattamenti, si è aperto un mondo e sono venute fuori le storie di queste famiglie che apparentemente non avevano alcun motivo per creare disagio ai propri figli.
Alla fine di ogni storia c’è sempre comunque un tentativo di riscatto, un messaggio di speranza soprattutto per chi si fa aiutare…
Il messaggio è: “Speriamo che possiamo farcela“. Le storie che ho raccontato sono storie di vita e in tutte le storie anche nelle nostre, ci sono gioie, dolori, riscatti, fallimenti. È la vita non l’ho inventata io è così! Ed è per questo che ho voluto raccontare queste storie così come erano avvenute, dove c’era il riscatto, il “lieto fine” era bene scriverlo per dare un messaggio di positività, dove questo non è accaduto a mio parere era giusto dire:” non è accaduto”. Ad esempio nella storia della ragazzina stuprata a 4 anni volevo mettere in rilievo come un danno subito a quell’età non tutti riescono a superarlo, quella bambina non c’è riuscita. Il mio obiettivo insomma era raccontare la realtà senza modificarla anche se questo è significato scrivere utilizzando anche un linguaggio duro, crudo.
Adesso Lilli è già impegnata a scrivere il suo prossimo libro, non si sbilancia ma ci anticipa solo che questa volta non saranno dei racconti ma una storia unica.
Non possiamo fare altro che aspettare…