Non so a voi, ma a me Zalone…

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Ci sono andato a vederlo (a Modica).

Contento, a modo mio, di aver partecipato al record di incassi (e quindi di visitatori) che ha fatto Quo Vado? di Checco Zalone il primo film della storia del cinema italiano. Nelle sale dal primo gennaio, finora ha superato i 52 milioni di euro (e i 7 milioni di presenze in sala), scavalcando l’altro suo film, Sole a catinelle, che due anni fa si è fermato a 51,9 milioni di euro. Dando, quindi, più di una boccata di ossigeno all’industria cinematografica italiana.
Ci sono andato (e ci tornerei), anche per poter dire la mia – per quanto possa valere – su questo (non) nuovo fenomeno comico italiano. Di cui, è vero, si è (fin troppo) parlato, nei giorni scorsi. Dividendoci, alla nostra solita maniera (la stessa messa alla berlina proprio da Zalone), in fazioni ben etichettate: da una parte i suoi fans sfegatati, dall’altra chi cita Bertolt Brecht per denigrarlo e in un cantuccio quelli che tifano Zalone solo per poter dar contro ai critici snob di sinistra. Se volete, io la penso così.

1) Proprio nel dividerci faziosamente tra seguaci e detrattori (del film) di Zalone, forse, ci si è dimenticati, a mio avviso, che un film comico dovrebbe essere visto, e valutato, in base alla quantità e alla qualità delle risate che suscita. E in questa pellicola, secondo me, di quantità e qualità ce n’è a iosa. E senza la scurrilità crassa di certe altre cine-commedie natalizie. Perché la bravura di Zalone (e del suo sodale e regista, Gennaro Nunziante) sta nell’essere riuscito a diventare quell’anello di congiunzione che, soprattutto in Italia (Paese della commedia dell’arte, dove alto e basso si contaminano, quotidianamente), tiene unite le due maschere del serio e del faceto.

2) A proposito, ho letto, in giro, che la comicità popolare di Luca Medici (vero, e altisonante, nome di Checco Zalone) trovi le sue radici in quella di Sordi prima e di Verdone poi. Mi permetto di non essere d’accordo. Zalone è Zalone, punto. Uguale a nessun’altro. Capace di prendere in giro i vizi degli italiani del Duemila (incollati tanto ai cliché quanto alle poltrone, mammoni, bamboccioni, un filo maschilisti, poco educati alla diversità e strutturalmente contrari ai cambiamenti dei costumi) ma, al contempo, capace di ridere anche degli italiani che questi cambiamenti (di mentalità, di educazione, di vedute) li hanno introiettati, fino a farne una bandiera. Distintiva e un po’ snob. E chiedersi (e addirittura rispondersi) se questa cifra comica sia, per Luca Medici, frutto di strategica furbizia o si tratti di una condizione naturale è esercizio sterile, non troppo utile e un pochino assurdo.

3) Come assurdo trovo, per quanto valga, il dibattito “politico” che si è acceso intorno a una piacevolissima commedia italiana, sulla quale in realtà c’è solo da dire che è stata pensata, costruita e recitata esclusivamente per far ridere. Il che, al giorno d’oggi, non è cosa di poco conto. La ragione del dibattito, come ha scritto Francesco Costa su Il Post:

è la vastità del suo successo, e per questo alla fine si parla molto poco del film e molto di noi, ma chi lo va a vedere lo fa probabilmente solo per passare due ore di svago: poi torna a leggere Proust, o Gramellini, o Ken Follett, o Franzen, o i libri di ricette, o a studiare per il prossimo esame. E dubito che anche tra chi disprezza questo successo non ci sia chi ha Candy Crush sullo smartphone o di tanto in tanto guarda una gallery di cuccioli o un video scemo online. L’idea che a vedere Zalone al cinema vada “l’Italia peggiore”, suggerita da più di qualcuno, può essere accettata solo se viene da chi vive su un pianeta diverso da questo, da chi non mette mai nemmeno il naso oltre il suo microscopico circoletto o da elettori di Sinistra Critica fuori tempo massimo. Forse nemmeno da quelli: al mio amico comunista il film di Zalone è “piaciuto molto”.

4) Ma davvero di politico e sociale non ha nulla da dire, ‘sto film? Beh, ecco, qualcosa ce l’ha. D’altronde è un film, ha cioè una storia dietro: non è un insieme di scene e di gag comiche, staccate le une dalle altre. E la sfera politica di questa storia sta, a mio avviso, nella lezione di civilizzazione e di cambiamento che il protagonista accetta e segue, fino alla fine. Scoprendosi, per amore, un uomo capace persino di migliorare (in grado non solo di rispettare educatamente le code ma anche di devolvere il proprio Tfr in medicinali per una Ong). È una storia ottimista, in fondo, questa. Che colpisce più di qualunque pistolotto salottiero su etica-politica-educazione civica, proprio grazie alla sua resa comica, leggera e popolare. Che poi questi cambiamenti siano reali, veri e possibili… ognuno può crederlo o no. È però innegabile che agli spettatori di un film (così come ai lettori di un libro) piaccia sentirsi dire, e vedere, che cambiare e crescere è possibile. E pure divertente.

5) La canzone La prima Repubblica, colonna sonora della pellicola, cantata (e suonata) alla Celentano… beh, quella già vale il prezzo del biglietto. Lì si che ci sta la satira pungente e amara. Ma basta quella canzone a scansare il rischio che, a farci ridere dei nostri cliché si finisca per invitarci tutti all’autoassoluzione, come davanti a una lunga tavolata con tarallucci e vino? Non lo so. E forse non importa saperlo. L’ho detto sopra: il film è una divertentissima commedia all’italiana e il protagonista è un ottimo comico che passa con disinvoltura dall’imitazione di Gramellini a quella di Celentano (una disinvoltura frutto di genio, studio e applicazione), semplicemente con una smorfia del viso. E per questo andrebbe applaudito. Solo applaudito, eh, mica seguito, ascoltato, portato in trionfo come fosse un guru. Che di comici diventati politici e di politici resisi ridicoli ce n’è già abbastanza, da noi.