Il cuore ‘sacro’ della metropoli che racchiude un mix perfetto fatto di storia, cultura e incontro-scontro – nel passato – di religioni, è stato duramente colpito da un attacco kamikaze che, sulla scia del sangue lasciato sulle pietre che separano la passeggiata tra la moschea Blu e Sultanahmet Square rappresenta un doppio avvertimento.
Il primo a un ‘occidente’ sempre più preoccupato e assai meno indignato – per le dinamiche – degli attacchi che si susseguono nei luoghi di maggiore frequentazione turistica; il secondo al governo del presidente Erdogan. In carica dall’agosto 2014, dopo undici anni da premier, già considerato sultano di Ankara, ora protagonista indiscusso della strategia neo-ottomana, Erdogan è stato colpito, in forza dell’attentato avvenuto nei pressi dell’obelisco di Teodosio, proprio nel cuore dei suoi interessi geopolitici: Istanbul, appunto, capitale economica e culturale della Turchia, sì biglietto da visita del paese perché conosciuta per il suo stile di vita occidentale, ma anche sede dei progetti faraonici di Erdogan.
Come la sproporzionata moschea di Camlica, adesso in costruzione e che, una volta ultimata, con i suoi quindici mila metri quadrati di superficie e otto minareti, sarà visibile da tutti i punti della città. Sarà così grande da poter essere comparata alla moschea di La Mecca. Detta così sembrerebbe un gran regalo alla comunità islamica, ma evidentemente non basta.
L’attentato di ieri, piuttosto – sempre che l’indagine confermi l’azione da parte degli jihadisti dell’Is – tende a colpire la più grande contraddizione di Erdogan, ossia l’ostentata politica filo-occidentale del suo governo e in particolare la partecipazione turca alla coalizione capeggiata dagli statunitensi contro l’Is in Siria e Iraq. Atteggiamento ambiguo posto che, secondo alcuni detrattori, Erdogan sarebbe già stato vicino alle dinamiche di Al-baghdadi tanto da favorire vari gruppi ribelli proprio in Siria contro Bashar al-Assad. Una mistificazione della realtà perché si è consumato il tentativo di convincere gli Usa bombardando solo simbolicamente i jihadisti; buona parte degli attacchi sferrati dall’apparato militare di Ankara erano piuttosto indirizzati contro i curdi.
Erdogan, la guerra, ce l’ha in casa, nel sud est del paese e non è neppure tanto silente da quelle parti; tuttavia gli echi e gli effetti dell’irrisolta questione curda non si avvertivano a Istanbul dal 27 luglio 2008, quando una duplice esplosione attribuita dalle autorità turche al Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan fece 17 morti e 115 feriti. L’attentato di ieri, invece, secondo le informazioni finora disponibili e sempre che non si trovi piuttosto una diretta connessione con i fatti di Colonia (le vittime dell’attentato sono soprattutto tedeschi e in Germania la politica migratoria della Merkel è sotto accusa), è invece frutto del pericoloso gioco della doppiezza e della irresolutezza.
La Turchia, paese stupendo abitato da bella gente, non merita tutto questo. Al di là della scia di sangue delle morti, non merita neppure le conseguenze negative che si scateneranno sul turismo dopo l’attacco a Sultanahmet. Il mancato ingresso della Turchia nell’Unione Europea e il fallimento della candidatura di Istanbul ai Giochi Olimpici del 2020 – questioni dove l’ambiguità evidentemente non era solo pragmatica – non hanno insegnato proprio nulla?