E così ripenso, e con una certa piacevole soddisfazione, al Natale del 2012. A Modica portammo circa 1000 bimbi sulla scalinata del Duomo di San Pietro. (Sì, proprio quello in cui per anni ha fatto il pastore il nuovo arcivescovo di Palermo, Mons. Corrado Lorefice).
Lo ricordo bene e con piacere. A cantare la tradizionale magia delle notti dell’attesa, c’erano (quasi) tutti i bambini delle scuole cittadine. E tutti non sta solo a significare il loro numero elevato, ma anche l’origine, la provenienza e la fede di quei bambini. E ricordo pure che tra noi organizzatori ci si chiese, naturalmente, come riuscire a realizzare l’evento senza escludere nessun bambino per questioni di religione.
La soluzione (semplice, come quasi tutte quelle di buon senso) fu di leggere l’evento natalizio in modo largo e originale. Andando cioè a toccare quelle corde e quelle note universali che fanno (o possono fare) dei canti e del Natale la festa di tutti (i bimbi): le corde dell’amore, della spiritualità, della dolcezza, dell’accettazione. Valori condivisi (da ogni credente e dai laici), valori capaci di abbattere barriere e costruire ponti. E così, quella notte di metà dicembre, si costruì un programma particolare e ricco: accanto ai testi della tradizione siciliana, italiana, cristiana vennero eseguiti anche una ninna nanna cinese, una danza africana, un canto del Bangladesh, una poesia araba: altrettanto dolci, profondi e accoglienti.
D’altronde, i tre mesi di preparazione al “Canto di luce, dove nessuno è straniero” – voluto dall’allora sindaco Buscema, orchestrato dall’allora assessore Annamaria Sammito, realizzato dal light designer Filippo Cannata, dalla pedagogista Marcella Fragapane, dal prof. Antonio Sichera e da decine di insegnanti – avevano ripercorso proprio questi valori, invitando ciascun bambino delle scuole a disegnare e riscoprire (dentro) cosa fosse il Natale, cosa volesse dire quella festa, cosa significasse quella tradizione. (E spiace parecchio costatare come Modica da quasi tre anni abbia dimenticato quel Canto corale e riposto in chissà quale magazzino le luminarie disegnate dai suoi figli, realizzate e poi appese nei vicoli della città, grazie a fili luminosi intrecciati da centinaia di volontari, scout, giovani, genitori, elettricisti e architetti).
Ripenso a quella notte mentre leggo della caciara mediatica e politica messa su intorno alla (falsa) notizia del divieto di presepe in una scuola del Nord e delle scomposte e teatrali reazioni di alcuni politici. Ricordo, con piacere, quel Canto modicano, così ecumenico e aperto, perché penso sia riuscito a insegnare ai bimbi protagonisti, e alle migliaia di cittadini scesi in strada ad ascoltarlo, quanto valga in sé il senso profondo della spiritualità religiosa e quanto danno possa fare, invece, l’interpretazione assolutistica e radicale che alcuni uomini danno del proprio credo.
Ricordo, con piacere, quel Natale universale di Modica, perché ci (mi) ha permesso di non respingere nessuna religione e nessuna fede (a cominciare da quella cattolica), nel momento più alto di celebrazione di un evento miracoloso in cui dio sceglie di farsi uomo, anzi bambino. Perché se rinnegassimo le nostre radici, non potremmo mai accettare la profondità di quelle altrui e incontrarle da una posizione di confronto. E diremmo no a qualsiasi percorso di convivenza tra le culture e le religioni. E negheremmo buona parte di quello che siamo solo per l’idea presuntuosa che gli altri non siano all’altezza di comprenderci.
Ma ricordo quel Natale modicano anche come una perfetta lezione di multiculturalità e interculturalità. Parole che, oggi più che mai, cozzano con l’atteggiamento di chiusura che alcuni uomini frappongono a chi è portatore di altre fedi e di altri valori. A me, invece, piace pensare che l’integrazione, in una società sempre più liquida, mista e colorata, debba avvenire sulla base di una reciproca accettazione. E da laico mi spingo a pensare che un bambino musulmano non possa essere disturbato da un canto di Natale o dal presepe nell’atrio della scuola, se per il resto le sue credenze vengono parimenti conosciute e rispettate e, soprattutto, se l’ora di religione (per chi sceglie di farla) si trasformasse in un’ora di storia delle religioni in cui si parla anche di quello in cui lui crede.
Ricordo, oggi, quella notte di avvento come un momento di unità, condivisione, partecipazione: una notte da mostrare come esempio a chi predica invece la discriminazione e l’esclusione; a chi è così sicuro del proprio credo tanto da ritenerlo quello (più) giusto da seguire, se non l’unico da praticare.
Ripenso con piacere a quel Canto magico che elevò al cielo un solo coro fatto di mille voci (diverse ma univoche), ricordando a tutti i valori di fondo di ogni fede religiosa: l’accoglienza e la cura dei più deboli, dei profughi, degli emarginati. Proprio com’erano profughi e migranti i componenti della Sacra Famiglia, protagonista del presepe cattolico. Tanto che mi viene da chiedere a chi così ardentemente parla di coerenza e tradizioni cristiane, se se la sente anche di accogliere gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste o di prendersi cura dei profughi che cercano da noi asilo e riparo. Perché se è così, se coerentemente stanno mettendo in pratica gli insegnamenti del Vangelo e lo spirito del Natale, allora e solo allora, i loro discorsi possono assumere un significato alto e condiviso.
Ricordo quel 22 dicembre di tre anni fa e mi torna in mente anche quel bellissimo racconto di Gianni Rodari (uno che con i bambini ci sapeva fare), che vi lascio qui. Così, più che questi miei ricordi laici, sia la sua favola (tratta da “Tante storie per giocare” ed. EINAUDI) a stimolare una riflessione e a tenervi compagnia nell’attesa della notte magica del Natale. Una festa di tutti, la festa dei più piccoli. La storia narra di un bimbo che, a corto di statuine per il suo presepe, decide di mettere in scena altri personaggi, ritrovati negli scatoloni dei suoi giocattoli: un aviatore, un pellerossa con la scure e una bambolina hippy con in mano una chitarra. Soddisfatto di quella scelta, il piccolo se va a letto. E mentre lui dorme sereno, le statuine si animano. Troppo. Perché pastori, zampognari e la nonnina con le castagne non accettano i nuovi arrivati, li trovano poco adatti al posto, sono diversi e non fanno parte del tradizionale gruppo. Uno su tutti: l’indiano pellerossa, con in mano l’ascia. E poco importa se lui abbia giurato di essere buono e che l’accetta gli serve a tagliare legna per il fuoco. La sollevazione delle figure tradizionali sta per compiersi, i tre nuovi arrivati stanno per essere cacciati. Quando…
– Pace! Pace!
Chi ha parlato?
– Guardate, uno dei tre Magi ha lasciato la carovana e sta venendo dalla nostra parte. Maestà, quale onore!
– Il mio nome è Gaspare, non Maestà. Maestà non è un nome.
– Ciao, Gaspare, – disse la ragazza con la chitarra.
– Buona sera, figliuola. Ho sentito la tua musica. Be’, non si sentiva un gran che, con tutto quel chiasso. E ho sentito anche della musica migliore. Ma la tua non era da buttar via.
– Grazie, Gaspare.
– Augh! – fece il pellerossa.
Salve anche a te, Toro Seduto, o Aquila Nera, o Nube Tonante, o comunque tu voglia essere chiamato. E buona sera a te, pilota. E a voi, pastori, e a te, nonnetta. Ho sentito il profumo delle tue castagne.
– Questa ragazzaccia me le voleva portar via…
– Su, su, forse ti è sembrato. Non ha l’aria di una ladra.
– E questo tipaccio con l’accetta? – gridarono i pastori. – Ci si presenta al presepio, con quel muso rosso?
– Avete provato a chiedergli perché è arrivato fin qui?
– Non c’è bisogno di chiederglielo. Si vede benissimo: voleva fare una strage…
– Io avere sentito messaggio, – disse il pellerossa. – Pace agli uomini di buona volontà. Io stare uomo di buona volontà.
– Avete sentito? – disse allora Gaspare. – Il messaggio è per tutti: per i bianchi e per i rossi, per chi va a piedi e per chi va in aeroplano, per chi suona la zampogna e per chi suona la chitarra. Se odiate chi è diverso da voi, vuol dire che del messaggio non avete capito nulla.
A queste parole fece seguito un lungo silenzio. Poi si sentì la vecchina che bisbigliava: – Ehi, ragazzina, ti piacciono le castagne? Su, prendi, e guarda che non te le vendo, te le regalo… E voi, pilota, ne volete? E voi signor Toro Volante, scusate, non ho capito bene il vostro nome, vi piacciono le castagne?
– Augh, – disse il pellerossa.