“Corrado non parte solo”. Il saluto del prof. Sichera, mentre in centinaia si preparano alla trasferta

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Diventato padre, generato alla paternità da questi anni che – per me in maniera commovente – lui ha definito meravigliosi, Corrado davvero non parte solo, ma si porta nel cuore e nell’intimo la nostra vita, come un sigillo che non perderà“.

Al professor Antonio Sichera, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Catania, nonché pilastro solido della parrocchia di San Pietro a Modica, è stato affidato il compito di fare sintesi dei sentimenti e dei pensieri delle comunità parrocchiali di San Pietro e del Carmine, nel giorno della partenza di Don Corrado Lorefice per Palermo.

Ma lì lo seguiranno tutti, sabato 5 dicembre, quand’è prevista la sua ordinazione: saranno in più di 700 a partire, alle prime ore del mattino, da Modica, per raggiungere il capoluogo dove già alle 16 è previsto in piazza Pretoria l’incontro con le autorità e la cittadinanza e alle 17 in Cattedrale ci sarà l’ordinazione episcopale e l’inizio del ministero del nuovo Arcivescovo. Nonostante lui non avrebbe voluto, per ragioni di sicurezza sarà purtroppo necessario essere in possesso di un “pass” per accedere alla Cattedrale e la Diocesi si sta adoperando per far far sì che tutti i federali che desiderano condividere con il loro “Don Corrado” questo importante momento a Palermo possano averlo.

Corrado non può dimenticarsi“, ha osservato ancora Sichera, leggendo ad alta voce le pagine di quel quaderno rosso pieno dei ricordi di tutti segnati a penna, che ha consegnato domenica scorsa direttamente nelle sue mani, affinché lo porti sempre con sé.

E a noi fa piacere pubblicare integralmente il testo dell’intervento che il professor Sichera ha fatto al termine dell’assemblea parrocchiale che ha seguito l’ultima messa di Don Corrado a Modica: ci sembra, su tutti, il modo migliore per dargli anche il nostro affettuoso saluto.

È il 21 luglio del 1944 quando Dietrich Bonhoeffer scrive all’amico Eberhard Bethge, il giorno dopo il fallimento della congiura contro Hitler che doveva portare all’eliminazione del dittatore e alla fine dell’incubo nazista. È un giorno difficile per Dietrich. Capisce di essere ormai condannato, vicino alla morte, ed è consapevole del fallimento delle sue speranze e di quelle di chi come lui aveva organizzato una coraggiosa opposizione al Führer. In quella durissima giornata, dal carcere di Tegel, Bonhoeffer offre al suo caro amico Eberhard una riflessione potente e toccante. Posto sul limitare dell’esistenza, questo pastore protestante amante della Bibbia, della grande letteratura e dei Lieder, ripensa alla sua esperienza di quegli ultimi anni e bandisce radicalmente dal suo discorso e dalla sua vita ogni possibile residuo di ipocrisia religiosa, ovvero ogni forma di religione che possa significare affettazione, maschera, imposizione, moralismo, volontà sotterranea di condizionare l’altro, negazione delle emozioni o dei sentimenti, presunzione o vanto di una fede, tutto ciò che possa apparire superfluo e sovramesso, per arrivare al cuore, per lui, dell’essere credente: «Negli ultimi anni ho imparato a conoscere e a comprendere sempre di più la profondità dell’essere-aldiquà del cristianesimo; il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, così come Gesù – a differenza certo di Giovanni Battista – era uomo». Che cosa voglia dire essere aldiquà (Diesseitgkeit) Bonhoeffer lo spiega subito dopo: «Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle mani di Dio […] e così si diventa uomini, si diventa cristiani».

Il mio breve intervento non parte da Bonhoeffer a caso. Chiamato a fare sintesi dei sentimenti e dei pensieri delle nostre due comunità parrocchiali – del Carmine e di San Pietro –, affidati ad un piccolo quaderno rosso a fiori che Corrado porterà con sé a Palermo, ho trovato in uno dei saluti questa citazione virgolettata della lettera di Tegel del 21 luglio, e ho pensato quanto fosse giusta l’intuizione di questo amico ‘salutatore’ tra tanti.

Infatti quel che esce da una lettura partecipe, a volte divertita a volte commossa, di queste poche pagine, scritte all’antica, con penne diverse e con grafie di ogni tipo – di queste pagine che già nella loro consistenza materiale dicono concretezza di vita, differenza (di età, di sensibilità, di pensiero, di relazione, di visione delle cose), di queste pagine che riflettono storie, incontri, ricordi come in una topografia dell’anima, come in un singolare elettrocardiogramma del sentire comune, del cuore di due comunità e dei loro membri – quel che esce, dicevo, è l’‘esserci’ di Corrado (per inciso: lo chiamo semplicemente così, Corrado, perché nei momenti decisivi della vita, diceva Isadore From, si ha diritto ad essere chiamati solo con il proprio nome), l’esserci di Corrado, il suo aver abitato queste comunità nel mezzo della sua vita tumultuosa, piena di impegni, spesso dislocata tra Modica, Noto e Catania, di averle abitate con il tumulto stesso della sua presenza e della sua voce, al di là di ogni evidenza, di ogni superficiale constatazione. A volte, in questi anni, ho sentito parrocchiani chiedersi dove fosse il parroco, magari sotterraneamente lamentarsi di questa sua vita vissuta a mille all’ora, che sembrava renderlo inafferrabile, ma chi legge questo piccolo e prezioso quaderno si rende conto, in maniera speciale, incontrovertibile, che Corrado c’era (lo dico in senso forte), c’era per tutti e nella vita di tutti. C’era per tanti bambini, che hanno voluto porre la loro firma accanto a quella dei loro genitori. C’era per tanti papà e tante mamme, che gli riconoscono di cuore il suo sostegno fondamentale nella loro avventura di genitori. C’era per tanti ragazzi, per tante persone giovani, che gli dicono grazie dal profondo per la sua compagnia, per la sua guida, per essere cresciute accanto a lui, perché non sarebbero state quelle che sono oggi senza di lui. C’era soprattutto – questo emerge con forza – per tutti coloro che sono stati nella sofferenza e nella prova: per gli addolorati, gli sfiduciati, i senza speranza Corrado c’è stato sempre, e il quaderno è una sorta di rendimento di grazie al parroco – qualcuno addirittura ha riscritto con una geniale intuizione il Salmo: «Rendete grazie al Signore perché è buono … ci ha donato don Corrado come amico, fratello e parroco» – per la sua affettuosa vicinanza, per la prossimità nei momenti più difficili della vita, quando la mancanza di una persona cara, la malattia, il disagio economico, la crisi delle relazioni toccano l’equilibrio della vita.

 Ma il piccolo quaderno rosso dice pure al suo lettore ‘come’ c’è stato Corrado. Forse alcuni di voi conosceranno per esperienza il rapporto problematico che Corrado ha con il cellullare. Quante volte vi sarà successo di protestare o magari di imprecare (a me è successo) perché volevate parlargli e il telefono squillava invano. Difficoltà di gestione degli apparati tecnologici? Ritrosia verso le protesi elettroniche? Sbadataggine? Mi ha sempre colpito intanto in questi anni il fatto che Corrado avesse però una sorta di selettività automatica, quasi istintiva, per cui alla telefonata davvero importante incredibilmente rispondeva al primo o al secondo squillo. Ma leggendo il quaderno credo di aver capito meglio, più a fondo, questo suo disagio con l’etere. Voglio dire che si intende bene, leggendo, come Corrado non sia, per sua costituzione, un uomo da cellulare, come abbia bisogno, in maniera vitale, di essere ‘assistito’ dal corpo. Quanti passaggi, in queste pagine, sugli abbracci di Corrado, sulle sue mani, sulle sue carezze, sul suo corpo da molti percepito sulla scorta delle parole di Francesco: un corpo che nel contatto con i suoi assorbe l’odore – un bambino o un signore anziano, non ricordo, dice chiaramente «la puzza» – delle pecore, un corpo disposto alla vicinanza, pronto alle lacrime. Perché è vero, Corrado piange tanto, è incline alla commozione, ma le sue lacrime sono come gli sbuffi di fumo di un vulcano, come le eruzioni spontanee delle sue viscere in ebollizione: nessuna forzatura, nessuna affettazione, nessun (malinteso) pudore: Corrado ‘è’ così. Buono e deciso, paziente e focoso, capace di sopportare gli assalti dei suoi fedeli e dei suoi amici (quelli da cui la signora Maria lo ha sempre strenuamente difeso) e pronto alla giusta fuga, dolce e impetuoso, serio e allegro, amico dei dolenti e dei buontemponi (lui sa a chi mi riferisco), sempre limpido, naturalmente ‘pulito’, istintivamente pronto, al di là anche delle sue stesse possibilità, perché sottrarsi alla chiamata personale dell’altro è per lui caratterialmente impossibile. E poi gli occhi: in diversi testi si torna sugli occhi di Corrado, sul suo sguardo, su questi occhi dall’azzurro penetrante, che, lo ricordo bene, quando eravamo ragazzi, lo facevano assomigliare più ad un attore in erba che a un seminarista. Ma lui, da vero bambino discolo e da ragazzo non ‘di chiesa’, seminarista lo era senza esitazioni, e al seminario ha dedicato buona parte della sua vita, su mandato del ‘suo’ vescovo (e qui il possessivo ha un valore esistenziale e non giuridico), il grande Mons. Nicolosi, forte dell’insegnamento del suo maestro di teologia – quel don Pino Ruggieri così amico delle nostre comunità, che ha sostenuto Corrado nel suo itinerario di studioso vero, importante, capace di scrivere sul Concilio, su Dossetti e Lercaro un libro che rimarrà (e che ha contribuito non poco a farlo vescovo, con buona pace di Mons. Negri: dovrà farsene una ragione: purtroppo per lui, il Concilio c’è stato), e accanto a Saro, ovvero a quel don Rosario Gisana, oggi vescovo di Piazza Armerina, suo compagno di studi, di ideali, di sogni e di fede, l’amico con cui ha condiviso il senso più intimo della sequela di Gesù, quel Gesù che entrambi, da sempre, chiamano ‘u Signuruzzu’ (è un altro tema ricorrente nel nostro quadernetto), quasi a ricollegare, almeno dal mio punto di vista, la loro fede alla fede degli antichi, dei nonni e dei bisnonni, a quella fede semplice di un popolo di contadini che ha trovato, in una Sicilia spesso ingiusta e inospitale, consolazione e forza nella passione e morte ‘ro Signuruzzu’, nelle lacrime di Maria per lui.

Un popolo di contadini, di lavoratori della terra, che quando i tempi si facevano troppo duri, pur di mandare avanti la famiglia erano disposti a partire, ad emigrare, a lasciare la loro terra e i loro affetti. E ha un po’ questo sapore l’ormai famoso quadernetto rosso. Sembra, con i suoi auguri, i suoi rimpianti, le sue lacrime versate o trattenute, la sua sospensione fra la tristezza e la gioia (qualcuno scrive: non so se è un sogno o un incubo) una raccolta di cartoline postali, di pezzi di carta o di messaggi arrangiati dei tanti familiari che salutano con affetto colui che sta partendo, raccomandandogli di star bene, di avere riguardo della sua salute, di non dimenticarsi di loro.

Leggevo e pensavo: Corrado non può dimenticarsi. Arrivato sette anni fa a San Pietro, in una parrocchia che ha avuto la fortuna di essere retta per più di cinquant’anni da due ‘uomini’, da due cristiani alla maniera di Bonhoeffer – un uomo vero il nostro (vale quel che ho detto sopra: possessivo esistenziale) Mons. Gambuzza, con la sua solidità di marinaio capace di far fronte a tutte le tempeste, un uomo autentico il nostro Padre Lorefice, ovvero i due padri che hanno generato alla fede e alla comprensione della vita tanti dei presenti, me per primo – , ecco, arrivato sette anni fa Corrado ha saputo guadagnarsi sul campo i galloni di padre-fratello di queste comunità, unendo idealmente a suo modo la potentia cordis (et vocis) di Monsignore e la raffinata sensibilità umana e intellettuale di Padre Carmelo. San Pietro lo ha segnato, San Pietro e il Carmine gli sono entrati dentro (e non solo San Pietro e il Carmine, ma anche tutte quelle realtà che qui Corrado ha scoperto o ci ha fatto incontrare: l’Africa e Lukanga-Mohanga di Concetta e Giovanni, che appartengono intimamente alla storia e della Diocesi e di San Pietro; la Paganica di Federico, dei giovani, delle famiglie, che nutre per Corrado e per queste comunità un affetto profondo, la Siria di Lina e dei suoi amici, carissimi ormai a tutti, che Corrado ha portato in comunità anzitutto con un suo viaggio ormai mitico a Damasco): tutto questo, queste storie, queste persone, noi, gli siamo entrati dentro. Ora, in una delle fantastiche omelie di Padre Carmelo che abbiamo a più riprese pubblicato, l’omileta parla ai bambini della mamma, e dice loro che la mamma non ha bisogno di pensare ad ogni istante, consapevolmente, ai suoi figli, non ha bisogno (e anzi sarebbe patologico, aggiungo io), di ricordarsi ad ogni momento di loro, di rammentarsene, perché la mamma, anche quando lavora e si immerge nel mondo, quando fa le faccende di casa, quando cucina o quando rassetta, quando incontra le amiche o va a fare compere, i suoi figli se li porta dentro, ce li ha stampati nell’anima e nel corpo: essi sono con lei ad ogni passo, il suo ri-cordo fa parte, fa da sfondo ad ogni azione, ad ogni pensiero, ad ogni sentimento della sua vita, anche quando lei non ci fa caso o non lo sa. La mia idea è che per Corrado sarà così, che per Corrado è così. Diventato padre, generato alla paternità da questi anni che – per me in maniera commovente lui ha definito meravigliosi –  davvero non parte solo, ma si porta nel cuore e nell’intimo la nostra vita, come un sigillo che non perderà. Crediamo, caro Corrado, che questo quaderno sia come il sigillo impresso sul tuo cuore. Lo sappiamo e te lo chiediamo, e dovunque siamo, qui o in altri luoghi, anche noi saremo a Palermo, con i sentimenti di un poeta. Sì, perché vorrei chiudere su una lirica dedicata ad una ordinazione.

Si tratta di un testo eccezionale, nato in circostanze eccezionali, scritto da un grande poeta, testimone di un evento idealmente molto vicino a quello che celebreremo tra qualche giorno a Palermo. Il 7 dicembre 1958, infatti, nella Cattedrale di Bologna, il cardinal Giacomo Lercaro conferisce il suddiaconato a Giuseppe Dossetti. Tra i presenti a quella liturgia c’è un matematico-poeta. Il suo nome è Leonardo Sinisgalli, nativo della (sua amata) Lucania ma presto trasferitosi a Roma e poi a Milano. Sinisgalli è un personaggio extravagante nel panorama della lirica italiana. Appassionato di fisica e di matematica, aveva coltivato sempre in pendant l’amore per la poesia, tentando una coraggiosa integrazione tra cultura umanistica e cultura scientifica. Da questa tensione erano nate esperienze importanti: il lavoro con Adriano Olivetti, l’incarico all’Eni, la creazione di riviste innovative come «Civiltà delle macchine». Quel 1958 era però un anno molto difficile per Sinisgalli. Gli avevano chiuso la rivista a cui teneva tanto (cosa che lo turba e lo indigna, come il fallimento di un’opera che gli stava enormemente a cuore), ed è stato costretto a trovare impiego all’Agip (il regno degli «ottani»). È con questo stato d’animo, di tristezza e di distanza dal mondo, a cui guarda ormai stoicamente dall’alto in basso, che Sinisgalli decide, da non praticante, di mettersi in viaggio verso Bologna per l’ordinazione di Dossetti. Lo ha conosciuto in occasione di una avventura editoriale non andata in porto (e di cui non sappiamo molto) ma è rimasto così impressionato dal personaggio da sentire il desiderio di recarsi in Cattedrale per il suddiaconato. L’esperienza sconvolgente di quella sera ci viene raccontata da Sinisgalli in un testo intensissimo, pieno di parole e di stilemi unici in tutta l’opera del poeta di Montemurro: in quella chiesa sormontata dall’Annunciazione di Carracci con i relativi arcangeli, a poche settimane dall’eclissi penombrale di luna che ha interessato i nostri cieli alla fine di ottobre del 1958, Sinisgalli viene toccato nell’anima dall’abbassamento fisico e spirituale di Dossetti, muta il proprio stoicismo in partecipazione accorata, e chiede infine al futuro prete – «silenzioso magutt», ovvero umile manovale – qualcosa di assolutamente inusitato per uno come lui: una preghiera per il suo sconforto, che lo assimila a tutti i dolenti oranti presenti in quella chiesa e sparsi per il mondo. Bologna, Lercaro, Dossetti, l’ordinazione. Tutti elementi che rimandano a Corrado, a noi, a ciò che vivremo e che speriamo prossimo all’esperienza di Sinisgalli:

 7 dicembre 1958

Prono davanti all’altare Dossetti

smunto davanti a Lercaro i tacchi

consunti le calze rattoppate

in alto le squadre degli arcangeli

ti fotografano e piange tua madre.

Anch’io che ti conobbi per poco

t’imploro conducimi dietro di te

davanti al Signore tu

miope e tenero.

Divora con le labbra la polvere

respira il lezzo della terra prono.

Le arpe di Dio ti consolano e anch’io

            indegno di lustrarti le scarpe.

            Benedici chi piange.

            È tempo di arance sotto il gelo

            di santi giovinetti di art brut.

            Per me è l’anno greve degli ottani.

            Prega per il mio sconforto il mio

            terrore il mio ribrezzo solitaria

            sentinella silenzioso magutt.

            La luna di dicembre splende più alta

            all’ecclisse. Sospirano d’amore le Lucie.

            Tu chiudimi gli occhi non mi dire bugie.

                                                                                                   Antonio Sichera