C’era una volta un sogno chiamato Fondazione Teatro Garibaldi.
Dentro c’erano una visionaria ambizione e una generosa abnegazione, il senso di un lavoro gratuito per un progetto che fosse capace di essere più grande delle persone piccole che lo stavano costruendo, la formidabile ostinazione di dargli un futuro ad ogni costo.
Tra le cose che accomunavano e accomunano ancora quelle persone c’è un certo rifiuto per le autocelebrazioni nostalgiche, per cui adesso non si tratta né di ricordarci che siamo stati bravi né di compiangerci per non essere stati sufficientemente compresi (e mi perdonerete se – ben lontana da ogni pretesa di obiettività, peraltro non richiesta in uno spazio di opinione – uso dichiaratamente la prima persona plurale).
Si tratta, piuttosto, di rivendicare il senso di un’intenzione che nel tempo successivo è stata non solo fraintesa – sarebbe un reato colposo, il minimo che ci si potesse aspettare da chi le parole è abituato a spianarle col trattore, senza andar troppo per il sottile – ma più propriamente offesa: e questo, va detto, è un reato doloso, delle cui conseguenze qualcuno dovrà prima o poi rispondere.
Si tratta, dunque, nulla più che di riassumere i fatti e di metterne in luce le contraddizioni, affinché qualcuno ogni tanto si ricordi che invece le parole vanno maneggiate con cura quando le si pronuncia e conservate nella memoria quando si agisce (o meno) di conseguenza.
Nell’estate del 2013 il neo eletto sindaco Ignazio Abbate nominò sovrintendente della Fondazione Simona Celi, senza avere nemmeno il buon gusto di organizzare un passaggio di consegne con chi aveva gestito la Fondazione fino a quel momento, il dott. Giorgio Pace, che a rigor di Statuto non si sarebbe nemmeno dovuto dimettere (decisione poi tuttavia assunta, non solo per fair play istituzionale ma anche per scansare un intollerabile giochino di Abbate, che subito affidò alla Fondazione 20 mila euro da gestire – sotto la responsabilità di nessuno – per le manifestazioni estive).
Poche settimane dopo, nuovo sindaco e nuovo sovrintendente si sedettero in conferenza stampa avventurandosi imprudentemente a definire “balena spiaggiata” una Fondazione che in quattro anni aveva già messo in piedi 170 spettacoli, contato 34 mila spettatori, staccato la media di 250 abbonamenti a stagione, immesso il Garibaldi nei circuiti nazionali contemporanei, coinvolto le associazioni e le scuole, avviato progetti di produzione, ottenuto finanziamenti esterni pubblici e privati, realizzato sostanziali interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulla struttura, mantenuto aperto il teatro per più di un anno con sacrifici ai limiti dell’irragionevolezza – o della formidabile ostinazione, si diceva – pur in assenza di un contratto di fornitura elettrica a causa delle morosità del Comune. Tutto questo, va altrettanto ricordato, approvando di anno in anno bilanci sempre in attivo, senza mai gravare sulle casse del Comune di Modica.
A quella “balena spiaggiata”, loro pretendevano di ridare vita, con una formula magica: trasformando il Comune nel principale sponsor del Teatro, ovvero l’esatto contrario del presupposto fondamentale per il quale tante persone negli anni precedenti si erano spese nel sostenere il sindaco Antonello Buscema e la sua volontà di dar vita alla Fondazione, un presupposto che qualunque persona di buon senso può ancor oggi vedere come l’unica via di sopravvivenza di un’istituzione culturale che si voglia mettere al riparo sia dalle altalene della politica sia dalla pressoché certa insolvenza dell’ente pubblico.
Oggi, due anni dopo quei proclami e senza che nel frattempo l’opinione pubblica abbia avuto il piacere di dare uno sguardo ai numeri dell’annunciata rivoluzione, Simona Celi si dimette provocatoriamente dicendo che “il Comune deve saldare 50 mila euro e il sindaco non si preoccupa della cultura”, mentre il sindaco accetta le dimissioni dicendo che “c’è bisogno di una riorganizzazione, perché la Fondazione non può fare solo debiti”.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, più che di mettere le cose in fila, per giungere ad almeno due conclusioni sconcertanti, una di metodo e una di merito.
La prima è la sostanziale impunità con cui ci si può permettere di dire tutto e il contrario di tutto non solo senza fare ammenda agli occhi dell’opinione pubblica, ma senza che nemmeno i presunti uomini di cultura di questa città la chiedano, si scompongano, alzino un ditino per protestare, per ricordare qualcosa tipo “Il Teatro è nostro, mica vostro”, niente.
Con questa consapevolezza che la coerenza delle idee, delle parole e delle azioni sia una preoccupazione all’antica e ormai in disuso, per una pedante questione di coscienza personale rileggo una lettera aperta datata 19 ottobre 2013, firmata da me insieme al prof. Antonio Sichera e ad altri soldati di quella legione di sprovveduti che davano una mano ad Antonello Buscema e a Giorgio Pace in quella follia della “Fondazione libera dalla politica”: “Il nuovo sindaco e la nuova sovrintendente – scrivevamo – hanno ricevuto in eredità un organismo rinnovato, ben avviato, al passo con i tempi, funzionante, solido e, come ogni altra cosa umana, ulteriormente migliorabile. A loro tocca, ora, operare in questa direzione, mettendoci almeno la stessa gratuità, la stessa sobrietà e lo stesso impegno che ci ha messo chi li ha preceduti. Magari tralasciando gli slogan da avanspettacolo, le trovate da marketing aziendale e le chiacchiere gratuite e ingiuriose. Chi ha l’onere e l’onore di amministrare non può permettersi di considerare la politica come un concorso da vincere a ogni costo, anche truccando le carte. Perché poi la storia, presto o tardi, presenta il conto”.
Ecco, poi ci si trova costretti a fare gli antipatici, i presuntuosi, quelli che “noi l’avevamo detto”, una posizione sempre scomoda parecchio spiacevole: ahimè non succede, per esempio, che passino invece quegli altri per quaqquaraquà.
La seconda cosa sconcertante (e chiudo il monologo), è prendere atto di questo inesorabile fiato corto a cui la cultura è costretta a sottostare, il meccanismo che non si riesce a scardinare per cui persino le sorti di un Teatro che si appresta a compiere il secolo e mezzo d’età debbano essere limitate ai pensieri di un sindaco e scombinate ogni tre o quattro anni per essere piegate alle esigenze della sua campagna elettorale.
Bè, direte, è proprio quello che avete fatto voi ai tempi dell’Amministrazione Buscema, perché adesso Ignazio non dovrebbe avere il diritto di fare lo stesso?
La differenza è, appunto, in quella sottile intenzione fraintesa e offesa: la nostra era quella di realizzare l’autonomia del Teatro dal sindaco (anche il nostro), la sua è quella di continuare a tenerlo il più possibile nella sua personale e politica disponibilità.
Dovremmo ammettere che il nostro sogno non era più che un sogno, che quell’ambizione era una velleità, quell’abnegazione e quella gratuità un mero esercizio di autocompiacimento, quell’ostinazione poco più che un gioco. Se non fosse che c’è ancora modo, prima che la svuotino del tutto dell’anima, per difendere la Fondazione e il suo destino: basterebbe che ci ridestassimo dalla rassegnazione che ci tocchi questa specie di medioevo culturale come una maledizione divina. Ammesso che a questa città sia collettivamente rimasto un dignitoso senso della propria identità, al netto delle luci di pochi che continuano individualmente a brillare, sempre accese.