Quando Pasolini raccontò Scicli. “Comunità di gente ricca di vita, deformata da secoli di dominazione”

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Quando Pasolini arrivò a Scicli

“Vista così, da lontano e dall’alto, Scicli era quello che si dice la Sicilia. Una comunità di gente ricca di vita, compressa, atterrita, deformata da secoli di dominazione, che troppa intesa a succhiarne il sangue, non ne ha potuto succhiare la vita: e l’ha lasciata viva, e quanto viva, a soffrire, a dibattersi, a uccidere, anziché a operare, a pensare e a amare”.

Era il 1959, quando Pier Paolo Pasolini arrivò a Scicli. Rileggere le sue parole più di mezzo secolo dopo – e quarant’anni esatti, dopo la sua morte – vuol dire riflettere sullo sforzo che ora questa città sta facendo, per non farsi succhiare il sangue ancora, e piuttosto continuare a operare, pensare e amare, nonostante tutto.

“La storia italiana e quella siciliana, tutto sommato si equivalgono”, osservava Pasolini: “C’è una sostanziale differenza tra i Savoia, i Papi e i Borboni? Qui, a una repressione certo più disperata e massiccia corrisponde ora un risveglio più stupefatto e clamoroso”.

Era arrivato qui da giornalista, scrittore, insieme a Renato Guttuso, Carlo Levi, Antonello Trombadori, Paolo Alatri e Maria Antonietta Macciocchi. E quel viaggio tra le grotte di Chiafura, raccontato poi dalla sua penna sulle colonne di Vie Nuove, resta ancora oggi una delle pagine più intense che siano mai state scritte su Scicli: “Piombati da Roma a Catania, da Catania a Scicli, attraverso cento e più chilometri di Sicilia verde; deserta, araba, greca, gesuitica, coperta di fiori e di pietre, con mucchi di città incolori, raggrumate, senza periferia, come le città dei quadri, sui fronti delle colline, nelle vallate – un gruppo di gente era ad aspettarci nella piazzetta giallognola di Scicli. Eravamo nell’ultimo angolo della Sicilia, ancora un po’ di campagna, carrubi, mandorle, villette estive di baroni, poi il mare, il mare africano”.

A chiamarlo, insieme agli altri, era stato Giancarlo Pajetta: in quegli anni per Chiafura, dove nelle caverne si viveva ancora in condizioni quasi primitive, si chiedeva di ottenere, con un aiuto dello Stato, delle case più moderne e civili, e l’onorevole del Partito Comunista, accettando la sollecitazione degli sciclitani, prima di adoperarsi per formulare e far votare una legge al Parlamento, mobilitò un drappello di intellettuali affinché sensibilizzassero, attraverso la loro voce e testimonianza, l’opinione pubblica sulle condizioni di arretratezza e miseria di questa gente. Il paese si svelò allo scrittore con la sua piazza, “piazza affollata di uomini neri, solo uomini”, mentre “stavano facendo un pazzesco girotondo alcune giardinette della Dc, urlando slogans in polemica dagli altoparlanti”. “La loro coscienza è già nel domani”, constaterà col titolo del suo pezzo, nel numero di maggio. Poi, la salita a Chiafura, al “castellaccio diroccato” da cui si poteva vedere tutta Scicli: “Come un vecchio giocattolo, sul calcare, la città di uno scolorito ex voto”. Le sue parole sono sconcertate, amare: “Che cosa dovevo vedere a Scicli? E cosa invece ho visto? È presto detto. Le caverne: immaginate una valletta, dentro la quale, compatta si sparge Scicli: senza periferia e case moderne; un po’ fuori, un enorme cimitero, un enorme ospedale, tutto color giallo-rosa, cadaverico; al centro la piazzetta e la strada barocca, dei baroni, dei gesuiti. Da questa vallata si diramano, tutte dalla stessa parte, altre tre piccole valli, dalle pareti quasi a picco, bianche di pietre: da lontano non si nota nulla: ma salendo per sentieri che sono letticciuoli di torrenti; sopra le ultime casupole di pietra della cittadina, si sale una specie di montagna del purgatorio, con i gironi uno sull’altro, forati dai buchi delle porte delle caverne saracene, dove la gente ha messo un letto, delle immagini sacre o dei cartelloni di film alle pareti di sassi, e lì vive, ammassata, qualche volta col mulo. […] Ed è questo ciò che ho visto a Scicli”.

[Fonte La Sicilia]