La Bic che compie 70 anni… nell’era digitale

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Allora, la storia oggi è questa. E mi permetto di trascriverla, paro paro, da qui (link: http://www.quotidiano.net/biro-bic-70-anni-1.1430282):

L’idea, a Lazlo Josef Birò, è arrivata come un fulmine, mentre guardava i ragazzini in strada che giocavano a biglie. C’è un bimbo che tira la pallina di vetro – classico gesto con pollice e indice – e quella schizza via dalla sua mano, per arrivare a destinazione dopo essere però rotolata in una pozzanghera e aver lasciato dietro di sé, nella polvere, una nitida, perfetta scia liquida. Come se la biglia scrivesse, insomma.
Era la fine degli anni ’30 e Laszlo – giovane giornalista ungherese con il pallino delle invenzioni – dalla biglia che scrive rubò l’idea per la sua invenzione storica: la penna a sfera. Quindici anni dopo, in un grande magazzino di New York, fu venduta la prima Bic – marchio inventato dal barone italo-francese Marcel Bich, che durante la guerra comprò il brevetto da Birò – destinata a rivoluzionare il mondo della scrittura a mano.

Era il 29 ottobre 1945, 70 anni fa. La biro Bic (entrambi i nomi sono ancora in uso) da allora ha mandato in pensione i vecchi pennino e calamaio, divenendo forse il simbolo per eccellenza del XX secolo.
E se al barone Bich si deve il boom della commercializzazione della penna a sfera, l’idea resta di quel geniaccio versatile di Birò. Un tipo speciale, mezzo artista e mezzo giornalista (era redattore in una rivista di Budapest) e con una fobia – racconta la leggenda – molto particolare: odiava sporcarsi le mani. E tra tempere e pennelli, inchiostro e pennino, è difficile restare con le mani immacolate. Proprio l’idiosincrasia per le macchie fece scattare nell’inventore l’idea di inserire tra il contenitore e la carta una pallina metallica che trattenesse, senza bloccarlo, il flusso dell’inchiostro e dalla quale potesse scaturire una linea netta e pulita, come quella della biglia che sfreccia nella pozzanghera.

Laszlo si mette subito all’opera assieme al fratello Gyorgy e, nel 1938, chiede il brevetto. Ma la seconda guerra mondiale incombe e il giornalista – di origini ebraiche – è costretto a fuggire prima in Spagna, poi in Francia e, infine, in Argentina. Qui il buon Birò perfeziona e brevetta la sua “creatura” ma i tempi sono duri e i costi di produzione troppo alti per le sue tasche. Così è costretto a cedere i diritti della sua invenzione al barone Marcel Bich, torinese trasferitosi in Francia, che la perfezionerà e legherà per sempre al suo cognome (dopo aver tolto la “h”). Trasformata in una penna leggera e pratica, oltre che economica, la ‘Bic’ sbarcherà in un grande magazzino di New York appunto il 29 ottobre 1945, al prezzo di 12,50 dollari.
Fu subito boom: il barone Bich produceva fino a 10 milioni di biro al giorno, mentre il povero Laszlo Birò morì, sconosciuto e in miseria, in un sobborgo di Buenos Aires nel 1985. Le prime penne a sfera approdarono in Italia subito dopo la guerra ma furono inizialmente osteggiate, soprattutto dai maestri a scuola, poiché si riteneva che peggiorassero la grafia. Anche negli uffici la biro (il primo a chiamarla così, in onore del suo inventore, pare sia stato Italo Calvino) fu off limits fino agli anni ’60. Poi, inevitabilmente, tutto cambiò…

La conoscevate questa storia dai crudeli destini incrociati? L’ho condivisa, nel giorno dei 70 anni della biro, pensando ai pizzini che mio figlio di (quasi) sette anni lascia, ogni tanto, nascosti sotto il cuscino di mia moglie. Ci stanno scritti e disegnati piccoli cuori, pensieri dolci, parole d’affetto. Tutti vergati con la penna a sfera. Sì, con la biro. Lo abbiamo “spinto” a farlo proprio sapendo che il suo oggi e il suo domani sono e saranno davanti a uno schermo touch screen; ma ci sono piaceri di ieri (di 70 anni fa) che nessuna tecnologia potrà mai offrire. Come quello di scrivere, a mano, con la biro su un foglio di carta. Lo abbiamo “abituato” così perché crediamo che, in tempi di smartphone, libri elettronici, lavagne digitali (sorpresa: la classe di mio figlio ne ha una…) sia comunque importante sapere ancora scrivere a penna, di proprio pugno. Perché un biglietto, un documento, una lettera… scritti a mano, con la biro, sono – diciamo così – più personali e unici (e rari, ormai). E in mezzo alla massa (anche mediatica) di chi comunica via computer sono qualcosa di autentico e distintivo. Ha qualcosa in più un biglietto d’amore scritto a penna di uno scritto col computer, non vi pare? Fa diventare quel biglietto (insieme al pensiero che ci sta dietro) esclusivo e più sincero: sto pensando a te e te lo voglio dire con qualcosa di prettamente mio: con la mia scrittura, con il gesto della mia mano che scorre su un foglio.

Oggi tocca (anzi, toccherebbe) alla scuola salvare la penna. E lo deve fare sapendo che la Bic è importante quanto la tastiera. E invece…

Invece qualche tempo fa, Umberto Eco ricordò come i bambini/scolari di oggi (classe dirigente di domani) non sappiano più scrivere a mano. Un buon 50% per cento di loro ha problemi sia la grafia (anche gli adulti per la verità, quando confondono la grafia con la calligrafia, che invece è già una parola compiuta e composta e vuol dire: bella scrittura. Per cui dire “hai una bella calligrafia” è fare uso di una ridondanza tautologica) sia con l’ortografia.

Che c’entrino computer e sms? Può darsi. Ma, a essere sinceri, c’entra anche la scomparsa, dai programmi e dalle valutazioni, degli esercizi di “bella scrittura”. E c’entra pure il ridimensionamento di quei maestri che, solo 30 anni fa, ci facevano compitare due o tre pagine di a, di b e di c… e passavano settimane a fare “dettati” (che, guarda caso, in Francia, da quest’anno, sono tornati molto di moda. Qui: http://www.corriere.it/scuola/primaria/15_settembre_18/dettato-giorno-ricetta-francese-gli-errori-grammaticali-0bd0110c-5def-11e5-9dfc-2c0d272590d9.shtml) .

Ora, considerando che sto scrivendo di penne e biro tramite un computer e che passo ore e ore on line davanti a una tastiera, è ovvio che non ho intenzione di star qui a fare l’apologia degli amanuensi. Però. Però noto che ci stiamo, progressivamente, privando di quella ginnastica che partoriva pagine e scritti più… pensati. E infatti non sono pochi gli psicologi che sostengono come la scrittura aiuti i bambini a diventare dei lettori, aumentando la loro creatività. Dicono che scrivere bene li aiuti anche a pensare bene, a tenere in ordine i pensieri, farli scivolare meglio dalle mente al foglio, dal dentro al fuori, secondo un ordine, un equilibrio, un’estetica. Da curare, quotidianamente.

C’è uno spassosissimo libro scritto dal conduttore radiofonico Marco Presta (Un calcio in bocca fa miracoli, Einaudi: ve lo consiglio vivamente) in cui il protagonista, un “vecchiaccio” amorevole e combina guai, ha il vizio di rubare le penne che si trova davanti: in banca, nei negozi, alla posta. Perché, dice: “La Bic è la cosa che più di ogni altra mi ricorda l’essere umano. È capace di imprese grandiose (compilare schedine vincenti e assegni scoperti), di azioni mediocri (scrivere liste della spesa e biglietti d’auguri) e di crimini orribili (decretare condanne a morte e lettere d’amore)”. Tutto, ironicamente, vero. E infatti, pensiamoci un attimo, quante delle cose (soprattutto di quelle cattive, rancorose e virulente) che scriviamo velocemente sui social (pensando, tra l’altro, di stare scrivendo qualcosa di unicamente personale) diventerebbero più meditate, ragionate e pacate se le usassimo per vergare, penna alla mano, una lettera, un biglietto o le pagine del nostro diario?