Danno per ansia da lavavetri. Il Comune può essere condannato al risarcimento del danno. E’ quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 13568/2015 del 23 giugno 2015, con la quale è stata individuata, all’interno del nostro ordinamento, una nuova figura di danno esistenziale: quella generata dall’“ansia da lavavetri” la cui rilevanza dovrà essere stabilita dal giudice amministrativo.
La parte attrice, ha convenuto in giudizio il Comune di Udine chiedendone la condanna al risarcimento del danno esistenziale, quantificato in via equitativa in € 2.500,00, che ha assunto di aver patito “quale cittadino automobilista circolante e fruitore delle strade pubbliche”, per il disagio e l’ansia che gli sarebbero derivati dalla “pratica di pedoni ben vestiti e ben pasciuti, anche deambulanti con stampella/e, muniti di cartello, marsupio e beretto” che, all’altezza dell’impianto semaforico esistente…, da oltre un anno erano soliti chiedere denaro agli automobilisti. A tal fine, l’attore ha addebitato al convenuto, quale ente proprietario della strada, di non avere adottato, ai sensi dell’art. 14 codice della strada (Poteri e compiti degli enti proprietari delle starde), misure idonee ad impedire o far cessare questi comportamenti molesti, oltre che “pericolosi per la circolazione”.
Da qui, secondo l’automobilista di Udine, verrebbe in rilievo il dettato normativo di cui all’art. 2051 c.c., poichè i lavavetri avrebbero dovuto essere considerati pericoli e insidie tali da compromettere la sicurezza e la fluidità del traffico, equiparabili al “tronco caduto sull’asfalto”.
Nei primi due gradi del giudizio, è stata declinata la giurisdizione del giudice ordinario in favore del giudice amministrativo.
La corte di Cassazione, investita del ricorso, ha rilevato che l’ansia e il disagio che possono derivare agli automobilisti dalla presenza dei lavavetri ai semafori, pur non relazionandosi con un diritto soggettivo del cittadino, potrebbero scontrarsi con un interesse legittimo all’adozione da parte dei Comuni di provvedimenti contingibili e urgenti che tutelino l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Però, sempre secondo l’opinione della Cassazione, confermando la posizione del Tribunale, i Giudici investiti della questione hanno stabilito che “Quando, infatti, viene in rilievo un’attività umana espressione di una forma di mendicità e di una semplice richiesta di aiuto (Corte Cost., sentenza n. 519 del 1995) proveniente da chi si trova in condizioni di povertà, non è pertinente il richiamo al dovere dell’ente proprietario della strada di porre in essere un’attività materiale, un mero comportamento di “pulizia delle strade”, come recita l’art. 14 del codice della strada.
E’ infatti in gioco un ambito in cui l’azione amministrativa, pur indirizzata alla tutela dei beni pubblici importanti (l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana), deve muoversi nel necessario rispetto della dignità della persona umana e dei diritti degli “ultimi”, essendo destinata a risolversi in prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni a coloro che ne sono destinatari”.
L’eventuale danno subito dall’ansioso automobilista, quindi, non deriverebbe dall’omessa custodia della strada da parte dell’ente proprietario, quanto dal mancato esercizio da parte del Comune di poteri autoritativi.
In ogni caso, continua la sentenza in commento, “La posizione soggettiva di cui l’attore pretende la tutela non è, nemmeno in astratto, qualificabile in termini di diritto soggettivo ma, semmai, di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo…”.
Ecco dunque che il T.A.R. viene investito dell’oneroso compito di stabilire se e quali danni possono derivare al cittadino automobilista fruitore di strade pubbliche dall’ansia e dal disagio causati dalla presenza dei lavavetri nei pressi dei semafori.
In conclusione, “…spetta al giudice amministrativo stabilire se, in concreto, tale interesse legittimo risulti davvero configurabile e, quindi, meritevole di tutela, o se invece si tratti di interesse indifferenziato di mero fatto che non consente l’accogliemnto della domanda”.