“C’è bisogno di un pensiero profondo che dia salvezza”. La forza della parola inserita in una magistrale cornice musicale restituisce al teatro greco la dimensione schiettamente pedagogica in una prospettiva inevitabilmente etica.
La scelta di Moni Ovadia, che probabilmente poco piacerà a chi preferisce la dimensione esclusivamente estetica della rappresentazione classica, restituisce al testo delle Supplici la funzione educativa che anima l’opera di Eschilo. L’agnostico Moni Ovadia attualizza quel messaggio di accoglienza incondizionata, e la scelta del popolo guidato da Pelasgo diviene un valore in sé, quel pensiero profondo che dà salvezza. Agli dei che impongono il sacro dovere dell’accoglienza delle supplici, Pelasgo – Ovadia sostituisce l’opzione etica che dà senso e forma all’azione di un intero popolo. Una scenografia quasi accennata ma di grande impatto: solo enormi mezzibusti africani innalzati su alti pali dominano lo scenario che racconta una storia che si ripete. Quella delle Danaidi o quella dei migranti africani che fuggono da guerre e fame. Perché la storia, avverte nell’incipit il cantastorie (strepitosa interpretazione quella di Mario Incudine), ritorna.
Ovadia riesce a recuperare anche un altro aspetto del teatro greco, che è quello della riflessione. Il momento della rappresentazione è solo un input. Spinge poi a un lavoro quasi esegetico lo spettatore che riesce in un primo momento a catturare nell’immediatezza del sentimento. Ogni immagine, ogni parola sono segni da decifrare. Il messaggio che potrebbe apparire prepotentemente imposto allo spettatore risulta invece funzionale all’aspetto formativo che – va ribadito – si nutre di una profonda dimensione morale in un’ottica di crescita collettiva. L’accoglienza non è tema semplice e senza conseguenze, e per questo presuppone un lavoro d’introspezione. Pelasgo – Ovadia insiste perché sia il popolo a decidere.
E non solo perché ne venga fuori una scelta democratica. E’ fondamentale che vi sia un assenso intimo, perché questa scelta restituisca l’umanità in chi la compie restaurando la giustizia. Ovadia sceglie la lingua siciliana, immediata ed efficacissima. Alcune parti in greco moderno, soprattutto nel breve ma incisivo faccia a faccia con l’araldo egizio. Parlano due lingue diverse, perché diversi sono i loro valori. “Cca – poi prosegue Pelasgo – si parla la lingua della libbertati”. Un testo pensato insieme a Mario Incudine e Pippo Kaballà. Nella rappresentazione, le musiche accompagnano il dramma e la speranza, in alcuni casi si sostituiscono alle stesse parole. La sgraziata invocazione, “Zeus, Zeus”, cantata dalle figlie di Danao, lontana dalla melodiosità classica, restituisce l’enormità della tragedia dei migranti, mentre l’ode finale esalta le qualità morali di un popolo che, liberato dal pregiudizio e dalla paura, rispetta la sacralità dell’accoglienza.
E non a caso ospiti d’eccezione sono stati proprio un gruppo di migranti, accolti in alcune strutture nel Siracusano. Amici sceglie di chiamarli il cantastorie, e le parole hanno un senso e un valore. Sul palco oltre a Ovadia che ha interpretato Pelasgo, e Incudine che veste i panni di un cantastorie, anche Angelo Tosto (Danao), Donatella Finocchiaro (prima corifea), Marco Guerzoni (Araldo degli egizi), le corifee Rita Abela, Sara Aprile, Giada Lo Russo, Elena Polic Greco e Alessandra Salamida, Faisal Taher (voce egizia), i musicisti Antonio Vasta, Antonio Putzu, Manfredi Tumminello e Giorgio Rizzo e gli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico “Giusto Monaco” che hanno interpretato il coro della Danaidi, le donne e gli uomini del popolo e gli armigeri egizi.
In apertura della prima, il sindaco di Siracusa, Giancarlo Garozzo, che è anche presidente dell’Inda, ha annunciato gli spettacoli del prossimo anno. Tutti e tre su figure femminili: Elettra di Sofocle, Alcesti di Euripide e Fedra di Seneca.