Ogni tanto una buona notizia. Arriva da Giarratana, dove alcune persone che hanno a cuore il benessere dei randagi si sono organizzate per proporre all’Amministrazione soluzioni alternative al canile.
Noemi Lucifora, consigliera comunale, e Sharon Iacono hanno deciso di occuparsi personalmente del destino di Doc, così lo hanno battezzato, un randagio molto mite e socievole sia con le persone sia con i conspecifici che vive in un quartiere della cittadina al confine con la campagna.
Doc si aggirava in quella zona già da mesi ed era diventato una presenza ben accetta agli abitanti del posto. La sua docilità, il temperamento tranquillo, le sue competenze relazionali lo hanno reso de facto un cane di quartiere. A quel punto non restava che attribuirgli un nome, un microchip e un tutore che si curasse di supervisionare i suoi spostamenti, accertare il suo stato di salute, preoccuparsi della sua alimentazione e di segnalare eventuali problemi all’Amministrazione.
E così è successo, per iniziativa della consigliera Lucifora e di Sharon, che di fatto in questi mesi era già diventata tutrice del cane. Doc è stato microchippato a nome del Comune, vaccinato e sterilizzato dall’Asp a metà aprile, ha trascorso la breve degenza postoperatoria a casa di Sharon ed è tornato subito dopo in libertà, riprendendo la sua vita di cane libero e benvoluto.
Un cane fortunato, rispetto ai moltissimi altri che vengono catturati per la sterilizzazione e poi quasi mai reimmessi sul territorio, e che purtroppo finiscono in un canile dove, da queste parti, troppo spesso hanno ben poche chances di essere adottati.
La vicenda di Doc potrebbe non restare eccezionale e anzi diventare un modello riproducibile in tutti i casi in cui ne sussistono le condizioni. La figura del cane di quartiere è infatti espressamente prevista dall’art. 15 comma 7 della legge regionale 15/2000 che recita: “Sono rimessi in libertà, previa sterilizzazione, identificazione ed iscrizione all’anagrafe come cani sprovvisti di proprietario, anche nel caso in cui le strutture (i canili rifugio, N.d.R.) offrano sufficiente capacità recettiva, i cani catturati che vivono in caseggiati, quartieri o rioni, qualora cittadini residenti nel medesimo caseggiato, quartiere o rione ne facciano richiesta al comune purché i cani interessati siano di indole docile e le loro condizioni generali e di salute lo consentano. Sono esclusi dalla remissione in libertà i cani delle razze di cui al comma 8 dell’art. 3. (cioè cani appartenenti a razze ritenute pericolose, ndr.)”.
In altre parole, i requisiti che la legge richiede affinché un randagio, a richiesta degli abitanti del quartiere o rione in cui il cane vive, possa essere reimmesso nel territorio dopo la microchippatura, vaccinazione e sterilizzazione sono pochi e semplici: la non pericolosità, il buono stato di salute e la sua eco-etocompatibilità con l’ambiente in cui vive, cioè il suo appropriato inserimento nel territorio.
Sui cittadini che hanno presentato la richiesta grava l’onere della supervisione e assistenza, fermo restando che il cane è intestato al Comune di appartenenza e che le spese sanitarie sono a carico dell’Asp. Una responsabilità lieve, quindi, nei fatti non lontana da quanto già molti informalmente fanno per i randagi che vivono nei vari quartieri delle nostre città, con in più il vantaggio della regolarizzazione della loro posizione e di quella del cane.
Perché allora questa prassi non è diventata la norma, nei quindici anni dall’emanazione della legge, ed è al contrario rimasta l’eccezione?
Le risposte possono essere diverse. Anzitutto solo poche persone sono al corrente di questa possibilità, persino tra coloro che dedicano quotidianamente tempo e risorse personali all’assistenza dei randagi.
Certamente è mancata un’adeguata implementazione del dettato normativo da parte delle autorità competenti, anche attraverso la diffusione di materiale informativo rivolto alla cittadinanza, le quali hanno preferito invece affrontare il problema (quando lo hanno affrontato) riempiendo i canili fino al collasso e “ripulendo” le strade dalla presenza di randagi anziché tentare strade alternative. Probabilmente questo è ciò che si aspetta buona parte della popolazione e le ragioni politiche per assecondare questa aspettativa sono ovvie.
Infine, un problema nodale nell’interpretazione della norma in questione, e cioè il requisito della docilità richiesto dal comma 7 dell’art. 15. A chi spetta la certificazione della docilità? Normalmente al veterinario dell’Asp, che tuttavia raramente è disposto ad assumersi la responsabilità di tale attestazione.
Inoltre, cosa si intende esattamente per docilità? Nella letteratura scientifica la docilità viene definita come la disponibilità a lasciarsi guidare, manipolare e gestire dall’essere umano. Una buona parte dei randagi presenti nel nostro territorio presenta indubbiamente queste caratteristiche, come nel caso di Doc, che ha stabilito un rapporto intimo con Sharon e con i suoi cani.
Ma anche laddove non si possa individuare una simile attitudine, nulla vieta di interpretare la docilità come non pericolosità per le persone e gli altri animali che vivono nel quartiere, caratteristica questa ampiamente riscontrabile nella maggioranza dei randagi, che anzi spessissimo possiedono competenze sociali ben più sviluppate dei cani di casa. Questa interpretazione sarebbe del resto più in sintonia con lo scopo della norma, che è quello di garantire la non pericolosità del cane reimmesso in libertà sotto la supervisione dei cittadini, non di esigere un legame di attaccamento tra cane e tutore.
Se si guarda ai benefici che ne deriverebbero alla collettività, l’applicazione di questa norma come strumento per affrontare il fenomeno randagismo dovrebbe essere incentivata, perlomeno in via sperimentale, tutte le volte che ne sussistono i presupposti: minore incidenza sulla spesa pubblica del mantenimento dei cani nelle strutture di ricovero, canili meno affollati e quindi in grado di offrire servizi migliori, controllo diffuso della presenza dei randagi sul territorio.
Se guardiamo ai benefici che ne trarrebbero i diretti interessati, credo che non avrebbero alcun dubbio nello scegliere la libertà a una vita di reclusione.