I proprietari di cani che portano a passeggio i propri animali devono “ridurre il più possibile il rischio che questi possano lordare i beni di proprietà di terzi quali i muri di affaccio degli stabili o i mezzi di locomozione ivi parcheggiati”.
A chiarirlo è stata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7082/2015.
I fatti di causa si sono svolti nel centro storico di Firenze, nel novembre 2010, allorquando un uomo passeggiava tranquillo con il suo cane sino a che quest’ultimo, per espletare i bisogni del caso, alzava la zampa verso il muro di un palazzo (di dichiarato valore storico architettonico), inumidendolo.
Il proprietario dell’edificio offeso – che aveva osservato tutta la scena – decide di denunciare il fatto all’Autorità competente per chiedere la condanna del padrone dell’animale ex art. 639, 2° comma, c.p. (“Chiunque, fuori dei casi preveduti dall’articolo 635, deturpa o imbratta cose mobili [c.c. 812; c.p. 624] altrui è punito, a querela della persona offesa [c.p. 120; c.p.p. 336], con la multa fino a euro 103 [c.p. 635, 649, 664, 674] (2) (3). Se il fatto è commesso su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati, si applica la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro. Se il fatto è commesso su cose di interesse storico o artistico, si applica la pena della reclusione da tre mesi a un anno e della multa da 1.000 a 3.000 euro).
Il giudice di pace aveva dato ragione al proprietario del palazzo, mentre il Tribunale di Firenze aveva accolto l’appello del padrone del cane, alla luce del fatto che questi aveva utilizzato una bottiglietta d’acqua per pulire la superficie del palazzo.
La Cassazione ha confermato la decisione del Tribunale, evidenziando l’esistenza di una strenua contrapposizione tra la legittima tutela dei beni di proprietà e la posizione di chi conduce animali da compagnia sulla pubblica via: situazioni, sottolinea la Corte, inserite in un complesso quadro formato da elementi quali la convivenza, il rispetto civile, la tolleranza e il malcostume sempre più diffuso.
È stato inoltre chiarito che, l’imbrattamento si è certamente verificato, non potendosi considerare esimenti la temporaneità ovvero la superficialità del danno. Tuttavia, perché il reato sussista è altresì necessario verificare se il padrone dell’animale abbia agito volontariamente o meno, così come se abbia previsto la possibilità che il cane potesse imbrattare il muro. In altri termini, poiché “il reato contestato all’imputato (articolo 639 comma 2 Codice penale) è un delitto, per la cui configurabilità è richiesta la sussistenza del dolo anche generico e, nella fattispecie in esame non è risultata provata la sussistenza del dolo, non si configurano gli elementi essenziali del reato”.
Ma, visto il tema di diffuso interesse sia per i proprietari di immobili sia per i proprietari di cani, e soprattutto visto che “la possibilità che un cane condotto sulla pubblica via possa imbrattare beni di proprietà di terzi è frutto di un rischio certamente prevedibile ma non altrimenti evitabile, non essendo ipotizzabile che l’animale sia costretto a espletare i propri bisogni fisiologici all’interno di luoghi di privata dimora privi di pertinenze esterne”, la Cassazione, con la sentenza in commento, ha stilato una sorta di vademecum per i padroni dei cani:
- il proprietario deve mettere in atto una attenta vigilanza sui comportamenti dell’animale;
- deve limitarne libertà di movimento in modo che non sia totale (se del caso tenendolo con un guinzaglio);
- deve intervenire con atteggiamenti tali da farlo desistere – quantomeno nell’immediatezza – dall’azione;
- nell’impossibilità di vietare al cane di fare pipì è bene portarsi dietro una bottiglietta d’acqua per ripulire.
Ad avviso della Corte, il comportamento del padrone è corretto se improntato a ridurre il più possibile il rischio (prevedibile ma non evitabile) che l’animale possa sporcare i beni di proprietà di terzi. Diversamente, si può imputare al proprietario “sciatteria o imperizia nella conduzione dell’animale”, tutte situazioni riconducibili, comunque, “a colpa ma non certo al dolo“.
In conclusione, nel caso di specie, con la sentenza n. 7082/2015 la Corte ha affermato che “il fattivo comportamento del padrone è stato ritenuto determinante per affermare la mancanza dell’elemento psicologico richiesto per la configurabilità del reato ex art. 639 c.p.”. Il padrone del cane è quindi stato assolto.