Gli elenchi, non foss’altro che per la fatica dell’esercizio compilativo, non ci piacciono. Eppure negli ultimi dieci giorni siamo lasciati tutti trascinare nella catena delle nomination, sui social network, accettando di fare il nostro: quello della lista dei libri prima, quello della lista dei dischi poi. L’elenco, insomma, delle esperienze culturali che hanno segnato in qualche modo la nostra vita o semplicemente di quelle che porteremmo con noi sulla famosa isola deserta, dichiarandoci pronti a rifarle.
Il fenomeno è interessante e, personalmente, mi è sembrato tale semplicemente studiando il mio comportamento da utente medio dei social: al di là dell’aver accettato di compilare le mie liste, mi sono ritrovata attenta a leggere fino in fondo tutte le liste – nessuna esclusa – pubblicate dai miei contatti, vicini o lontani. Ho trovato cose divertenti e sorprendenti: che quel libro tanto amato ha trovato posto nella lista di qualcuno che avrei giurato nemmeno lo conoscesse, che quel personaggio così riservato si è confessato completamente solo mettendo in fila i suoi dieci titoli, o che le cose migliori di quell’autore forse sono quelle che ancora non ho letto.
Certo, la mia “to read list” si è allungata a dismisura. Ma mi è sembrato di entrare per la prima volta a casa di molti amici e avere la possibilità di curiosare tra i titoli della loro libreria, notare quali sono i dorsi più consumati e persino studiare l’ordine con cui sono stati sistemati.
Ecco – ho pensato – che bello sarebbe se li usassimo sempre e solo per questo i nostri profili social, anziché per fotografare gli spaghetti del pranzo. Che bello sarebbe se imparassimo a condividere con gli altri – e non solo eccezionalmente – la bellezza delle nostre esperienze migliori: una citazione al giorno dal libro sul comodino, l’ultimo disco scoperto, qualche consiglio per approfondire. La qualità delle nostre interazioni ne guadagnerebbe, insieme alla nostra curiosità e, con il tempo, alla nostra cultura. Ci risparmieremmo, persino, di essere chiamati di tanto in tanto a sintetizzare in dieci punti l’essenziale di noi stessi, ricordandoci in ritardo che ci siamo persi qualcosa d’importante.
La mia lista di libri, nell’ordine in cui li ho incontrati e mi hanno fatto cambiare strada*
– Il venditore di storie di Jostein Gaarder, perché ho imparato subito che bisogna aspettare di non essere troppo giovani prima di scrivere un libro
– La casa degli spiriti di Isabel Allende, perché è l’unico romanzo che si è fatto perdonare il soprannaturale
– Insciallah di Oriana Fallaci, perché mi ha insegnato qualcosa sulla vera essenza del mio mestiere
– Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, perché mi nutre lo spirito ogni volta che lo prendo dallo scaffale per aprirlo ad una pagina qualsiasi
– Il museo dell’innocenza di Orhan Pamuk, perché mi ha tenuto compagnia in una lunga solitudine
– Il contrario di uno di Erri De Luca, perché non avrei saputo dirlo meglio
– Il minotauro di Benjamin Tammuz, per come uno così lontano nel tempo e nello spazio sapeva la mia storia e l’ha scritta
– La cura Schopenhauer di Irvin Yalom, perché è stato la scelta migliore fatta per caso prima di prendere un treno
– La cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz, perché sa diventare struggente in un modo insospettabile
– L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, perché è raro e prezioso che capiti di parlare con qualcuno intorno all’immortalità dell’anima
– L’uomo senza qualità di Robert Musil, perché potrebbe essere il testo di un esame universitario sullo stare al mondo
– Due ragazzi, Dublino, il mare di Jamie O’Neill, perché l’ho cercato fino in capo al mondo pur di leggerlo e ne è valsa la pena
– A sud del confine, a ovest del sole di Haruki Murakami, perché le cose semplici sono sempre le più (duramente) vere
– Cantico dei Cantici di Sholem Aleykhem, perché é il più sintetico ed efficace compendio mai letto sul dolore dell’amore
– Il gioco del mondo di Julio Cortazar, perché se non te ne innamori alla follia è meglio che tu non scriva mai più un rigo
– Alonso e i visionari di Anna Maria Ortese, per l’impagabile, delicata generosità con cui è stato scritto.
*Nota bene: Memoria di Adriano non c’è, solo perché – per fortuna – lo hanno citato proprio tutti.
La mia lista di dischi, nell’ordine in cui li ascolterei oggi pomeriggio
– Kind of Blue di Miles Davis, perché l’ho scoperto a vent’anni eppure mi sembra sia stato il mio primo innamoramento della musica
– Islands dei King Crimson, perché mi fa perdere nell’inebriante racconto di un approdo sognato e forse impossibile
– Alegria di Wayne Shorter, perché è un abbraccio al buio, d’inverno
– Nursery Crime, Foxtrot e Selling England by the Pound dei Genesis, tutti e tre in fila, perché è come sapere di non essere mai soli
– Rimmel di Francesco De Gregori, perché ho la musicassetta del ’75 nella cassaforte che custodisce i reperti della mia vita, insieme a un braccialetto rotto e a sassi di fiume
– Non al denaro, non all’amore nè al cielo di Fabrizio De Andrè, perché non ho ancora deciso se la musica ha fatto un monumento alla poesia o viceversa
– Songs from the road di Leonard Cohen, perché ogni song mi somiglia, mi sorprende o mi sfida in un modo sempre nuovo
– Il cofanetto viola coi quattro dischi di Jimi Hendrix Experience, per quei giorni formidabili e chi me l’ha regalato
– The Wall, live in Berlin di Roger Waters, perché una sola posizione non basta per i Pink Floyd e allora prendo l’ultimo arrivato
– Chiaroscuro di Paolo Fresu e Ralph Towner, perché sembra un po’ acerbo eppure è già maturo (e mi ricorda un lungo viaggio in cui non c’ero)
– A Love Supreme di John Coltrane, per l’esattezza di quella parola – supremo – che lo definisce
– Sleeper di Keith Jarrett, perché se tutta la musica del mondo dovesse finire e dovesse restarmi un solo brano da ascoltare, sarebbe la traccia numero due di questo disco.