Giò è una persona incapace di emozionarsi e di avere dei ricordi a causa della mancanza dell’amigdala nel suo apparato cerebrale.
Vive la sua vita e il suo lavoro come un automa, capace solo di svolgere azioni meccaniche generate dalla mente razionale.
Un giorno si risveglia incatenato ad una sedia, col volto sfigurato e un’ottica piantata nell’occhio destro. Il suo cranio è ricoperto da un casco neurale dal quale fuoriescono dei cavi elettrici collegati a un proiettore che mostra i suoi ricordi su uno schermo. Giò scoprirà, così, una serie di verità sulla sua esistenza legate ad una faccenda accaduta 30 anni prima.
È l’eterna lotta tra il bene e il male il fulcro di Amigdala, primo lungometraggio del giovane e talentuoso regista Vito Pagano, pugliese di nascita e romano di adozione. Il film, un thriller psicologico che promette di tenere tutti ben incollati alle poltrone, sarà presentato nei prossimi mesi in giro per l’Italia e una delle tappe sarà proprio in provincia di Ragusa, a Vittoria.
Videoperatore, regista e sceneggiatore, Pagano vanta prestigiose collaborazioni con grandi nomi del cinema italiano e straniero: da Penelope Cruz a Claudia Cardinale, Alessandro Siani, Carlo Verdone, Claudio Bisio, Emile Hirsch, Franco Nero, Paola Cortellesi, Leonardo Pieraccioni e Sergio Castellitto.
Di lui, che si definisce “introverso, sognatore e incosciente”, si sta parlando con sempre maggiore insistenza negli ambienti cinematografici, e molto di più se ne parlerà nei prossimi mesi. Noi lo abbiamo intervistato.
Così giovane eppure già una così lunga esperienza lavorativa alle spalle. Solo talento o c’è dell’altro?
Credo ci sia dell’altro, un elemento che viene prima del talento che è la capacità di crearsi le occasioni e fare in modo che la fortuna ti venga incontro, senza aspettare che bussi alla tua porta da sola. Tutto quello che ho fatto finora, fa parte di un percorso che ho scelto di fare senza avere garanzie, ed è stato questo il bello; i salti nel vuoto sono la mia specialità. Sono i salti nel vuoto che creano le occasioni e le occasioni ti fanno capire se hai abbastanza talento, ma anche se hai abbastanza tenacia, forza fisica e mentale e determinazione per affrontare tutto.
Com’è il tuo rapporto con la Sicilia?
Purtroppo ho visitato la Sicilia una volta sola, sei anni fa; sono stato a Noto, per le riprese di uno spettacolo che si è tenuto sulla scalinata della Cattedrale. Era tutto magico, senza tempo, onirico, proprio come i film di Fellini. Non ho dimenticato il mare, le granite di mandorla a colazione e il vento caldo. Per il resto ho sempre vissuto una Sicilia cinematografica tramite film quali Nuovo Cinema Paradiso o Il Padrino. Corleone è un posto che vorrei visitare e magari girarci un film. Anche se uno dei miei sogni è girare una trasposizione cinematografica di Cavalleria Rusticana, magari proprio a Corleone. La Sicilia mi ha sempre trasmesso un senso di malinconia che ti lega inevitabilmente a quella terra, come fosse stata creata a parte da un Dio fantasma che, ubriaco di sogni e poesia, ha lasciato la sua impronta indelebile sull’immaginario collettivo mondiale. C’è un qualcosa che sa di vita e di morte in quella terra e vorrei fluttuare in mezzo a queste due cose. Spero di averne presto l’occasione.
Amigdala, film che nei prossimi mesi presenterai a Vittoria in anteprima, è un thriller psicologico incentrato sulla lotta tra il bene e il male, tema questo molto caro da sempre al mondo del cinema e non solo. Quale l’elemento in più, nuovo, da te introdotto?
L’elemento nuovo che ho inserito è l’interdipendenza tra bene e male e la necessità dell’esistenza di quest’ultimo, per porre l’uomo dinanzi alla scelta del bene o del male stesso, proprio come il libero arbitrio che Dio ha esercitato su di noi. Nel mio film, il male è tale in quanto crede nei sogni del protagonista e fa di tutto per agevolarlo e ostacolarlo, come se lo stesse mettendo alla prova sulla sua stessa umanità. Credo sarà uno di quei film in cui lo spettatore non saprà più per chi tifare nel corso della narrazione; avrà forse difficoltà a schierarsi da una parte o dall’altra, proprio come nella vita è difficile scegliere. Ma Giò, il protagonista, ha un’umanità non indifferente. Non posso rivelare altro.
In questo film non sei solo regista, ma anche direttore della fotografia, operatore e macchinista. Come sei riuscito a conciliare tanti compiti? E tu cosa senti, maggiormente, di essere?
Ho sempre pensato che, in questo mestiere, sia necessario saper fare un po’ tutto, ma specializzarsi su una e una cosa soltanto. Per questioni di sopravvivenza uso la steadicam ma la regia è sempre stata la mia priorità. Aver ricoperto diversi ruoli sul set, mi ha portato a migliorare la mia competenza tecnica sul fare un film e il non avere tanti soldi è stato vantaggioso, perché ha messo a dura prova la mia fantasia e la mia capacità di risolvere problemi. Ho conciliato tutti i compiti grazie alle mie numerose esperienze, e spesso il mio ruolo di regista è stato più difficoltoso perché dovevo pensare a troppe cose insieme, sia tecniche che creative ma è stato meglio cosi. Sono uno di quei registi che filma personalmente le inquadrature e che ha molto controllo sulla resa tecnica, specie sul tipo di ottiche da usare per una certa inquadratura. E’ importante essere un tutt’uno con la macchina da presa, tenere l’occhio nel view-finder come se l’occhio della macchina fosse il prolungamento del tuo. Proprio come il personaggio di Giò nel mio film, un uomo con un’ottica 50mm impiantata nell’occhio destro. Era destino che Giò diventasse il mio alter ego.