A dire il vero, lo è sempre stata, metafora del Paese.
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Tutto per paragonare la Costa Concordia alla situazione dell’Italia.
Ve lo ricordate?
Prima, l’ironia feroce e rabbiosa su Facebook quando la nave si rovesciò al Giglio, come una balena spiaggiata.
Già, con quella similitudine, con quella sineddoche indicante una parte per il tutto, era (fin troppo) facile riferirsi a un Paese arenato e impotente, vittima dei propri vizi endemici. Nel gennaio 2012, nei giorni più neri della crisi, con lo spread che volava alto e il nostro morale sempre più basso, quella cartolina dall’Italia venne utilizzata con un certo gusto dai media di tutto il mondo, felici di trovare facile conferma agli stereotipi, purtroppo talvolta veri, sull’Italia che non cambia mai. Anzi, cambia in peggio e va a fondo: “L’immagine dell’Italia all’estero è anche la Costa Concordia. Nell’immaginario collettivo siamo naufragati anche noi tra gli scogli del Giglio e poi rimasti in secca proprio come l’imponente nave da crociera. Quella nave ci rappresenta meglio di qualunque metafora, anzi è lo specchio della storia più recente del Belpaese, può aiutare a spiegare perché un sogno galleggiante si è trasformato in un relitto immobile, paurosamente sbandato, e sempre in bilico sul punto di affondare“, scriveva il Fatto Quotidiano.
Poi il giubilo e la riscossa italica nel rivedere la nave raddrizzata, lo scorso settembre: simbolo di un Paese che sta(va) rimettendosi in sesto. In quei giorni, tuittarono nell’ordine: Roberto Saviano, scrittore, “un impronunciabile sogno: che con la nave possa raddrizzarsi anche l’Italia” e Enrico Letta, allora presidente del Consiglio: “tutti quelli che stanno lavorando lì sono un grande orgoglio italiano”.
E ora le immagini dell’operazione di scorta dal Giglio a Genova, trasmesse da ogni canale, da tutti i siti di news, su Facebook… senza soluzione di continuità. Ebbri di realtà virtuale, riusciamo a leggere vita di tutti i giorni, solo per titoli, sms e metafore. Immersi, tutti, dentro un reality, più che nella realtà.
Ma siccome il viaggio verso la “normalità” è più “difficile” da metaforizzare, ecco che la parabola da interpretare è diventato il tempo necessario per il tragitto fino a Genova, per cancellare da quel relitto quell’aria di minaccia, di disgrazia, di cosa brutta gettataci tra i piedi in una fredda notte di due anni e mezzo fa.
E a voler proprio “giocare” sul tempo: il viaggio dal Giglio a Genova del relitto è lungo 180 miglia nautiche, circa 330 chilometri, e durerà cinque giorni ad una velocità media di circa 2 miglia l’ora. E ci si può anche legittimamente chiedere cosa siano cinque giorni rispetto a tutto il tempo in cui la nave è rimasta riversa su un fianco e non si riusciva nemmeno a risollevarla.
E qui l’ultima (e unica) immagine che viene in mente è che di quella nave, malconcia ma di nuovo in piedi, francamente, basta, non se ne può più. E le sue foto in mezzo al mare provocano lo stesso sbuffo insofferente che viene a un modicano in mezzo al traffico per “scendere” dalla Sorda a Modica bassa, ora che il ponte Guerrieri è inagibile (e lo sarà per altri due mesi, almeno).
Che poi, alla fine: quanto ci importerà del futuro della nave, una volta spenti i riflettori e riposte le telecamere? Quanto siamo disabituati a vivere come notizia il corso “normale” delle cose? Il che equivale a dire: quanto ci interessa conoscere qual è il costo, anzi il valore, del lavoro che ci vuole per questa “normalizzazione”?
E se fosse questa la metafora definitiva del nostro Paese? Peccato solo che non sarà – probabilmente – oggetto di alcun commento, di alcun editoriale. O di alcuna satira.