Ivano Fachin: “Abbiamo trovato l’Americazuela”

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Siamo andati a cercare l’Americazuela, e l’abbiamo trovata, con tutte le sue contraddizioni. Una terra ricca e baciata dal sole e dall’abbondanza, dove in tanti, soprattutto nel secondo dopo guerra, sono venuti a cercare il “progresso”, come lo chiamano loro rubando dal Castigliano, per tentare di accumulare un po’ di risparmi e tornare in Italia per comprarsi una casa, aiutare la famiglia, mettere su una piccola attività. Due anni staremo via, si dicevano i più, solo due anni. E di due anni in due anni, dopo mezzo secolo sono ancora lì, in quella terra che non conoscevano, che non riuscivano neanche a immaginare quando sono partiti ragazzi, e di cui la maggior parte non aveva neanche idea di dove si collocasse geograficamente. Ognuno portava il suo mestiere, molti ne facevano più d’uno, e chi un mestiere non l’aveva spesso si reinventava nell’edilizia, scoprendo di possedere conoscenze ataviche che qui erano una ricchezza, e che in molti casi hanno portato grandi fortune. Venendo qui certo si aspettavano l’America, questo  sì, ma America non era. La comunità più grande di modicani l’abbiamo trovata a Valencia, dove il nostro punto di riferimento era Concetto Di Tommasi, celebrità e non solo tra gli italiani, con la sua gelateria Olympia. La sua ospitalità ha un sapore antico e il suo carisma è vulcanico, impossibile da contenere: ci ha travolti con le sue storie, la sua famiglia, le sue foto e i suoi mille ricordi. E da Valencia siamo andati a Est e a Ovest, siamo stati nel piccolo paese di Tucupido, introvabile sulle guide, dello stato Guárico, dove i coniugi Caruso, che avevamo intervistato a Modica e che sono tornati negli anni settanta, avevano il loro negozio; siamo andati a Barinas, paese natale di Chavez, Guanare, del florido stato di Portuguesa, a nord, a Maracay, e poi a Bejuma, a Güigüe. Abbiamo trovato una Sicilia che da noi non esiste quasi più, un’ospitalità ostinata e travolgente, una cortesia e un senso di condivisione che una società molto più individualista come la nostra ha in larga misura smarrito.  Abbiamo anche trovato un orgoglio che non ci appartiene, di un’Italia, di una Sicilia, che magari non esiste, ma che loro rendono viva e, in qualche modo, vera. E se la tengono stretta, la cullano, nei loro centro Italo-Venezuelani, nei Club Italia, dove si riuniscono e creano una comunità indipendente e unita come poche. Tante le famiglie, le storie, le fortune alterne, in un paese in grave difficoltà, dove gli ingenti capitali del petrolio (è il paese più ricco greggio al mondo) hanno portato corruzione ed enormi diseguaglianze sociali, dove il tasso di criminalità è troppo alto per poter vivere sereni, e molti sono costretti a vivere nella paura, barricati, vittime di rapine e sequestri. Troppi i pranzi, gli inviti, troppi per un solo viaggio, le famiglie Pecoraro, Caschetto, Iozzia e tante altre. E su tutti, la nostra guida, Josefina Cannata, senza la quale non avremmo potuto vedere così tanto in così poco tempo. Uomini e donne che hanno tutto qui in Venezuela, dove hanno lavorato e costruito, tutto tranne il cuore, che è rimasto nella loro Sicilia. Una scena su tutte, rimarrà impressa nella nostra mente. Alla fine di un lauto pranzo di pasta al sugo, carne arrosto e dolci, il nostro ospite, il capo famiglia, con naturalezza si avvicina alla gabbia dei suoi due bellissimi pappagalli e gli dà da mangiare un piattone di penne al pomodoro. I due pappagalli, apparentemente entusiasti, svuotano il piatto, col becco pieno di pomodoro, e gli occhi pieni di Sicilia. Questa è stata la nostra Americazuela.

Ivano Fachin