“Non mi interessa l’idea di quello che sono stata, quanto invece il contenuto di un messaggio anche senza più l’origine, la provenienza, il marchio. L’idea che se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo aprire mente, anima e cuore. Dobbiamo costruire relazioni umane, che siano degne di questo nome e dobbiamo espellere la violenza, a partire dalle istituzioni ed a finire con le situazioni di conflitto”. Non si sottrae, Adriana Faranda, dal rispondere alle tante domande che anche ieri sera a Modica in molti, privatamente, hanno volute farle sul suo passato nelle Brigate Rosse, sul suo coinvolgimento nella drammatica vicenda del rapimento di Aldo Moro. Non si sottrae come non si è mai sottratta, in questi decenni, dalla responsabilità di ammettere, ma soprattutto di testimoniare, in quell’accezione ampia che ricomprende e allo stesso tempo essenzializza il senso di un’intera esistenza.
Nessun giudizio, però, rispetto a chi – a differenza sua – non si è dissociato: “Nessun giudizio – ribadisce – soprattutto da parte nostra, che siamo già incorsi nell’errore e nell’arroganza di giudicare”.
“Credo che la politica in quella stagione – commenta Adriana Faranda – abbia avuto una grandissima carenza proprio nel dialogo con chi, come noi, era portatore di bisogni nuovi, di desideri nuovo, di critiche anche a molti aspetti del sistema in cui vivevamo. Questa mancanza di dialogo ha portato ad una radicalizzazione, ad una chiusura, ad una incomunicabilità, è diventata rifiuto del dialogo anche da parte nostra, molto presto. Il fatto che non si venga compresi si trasforma in un punto di forza e nella radice di una nemicità assoluta”.
E ricorda: “Dal punto di vista della mia storia all’interno delle Brigate Rosse, i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro sono stati i più brutti. Giorni in cui si mescolava una grandissima ansia per quello che stava per succedere, una lacerazione umana molto profonda e un senso di impotenza a quel punto, il momento in cui avevamo perso la battaglia interna per la liberazione senza contropartita del Presidente Aldo Moro. C’era la sensazione di non poter far nulla”.
“Ho vissuto una crisi profondissima – ammette oggi Adriana Faranda, con serenità, ma non senza una certa fatica -, in cui alla fine ce l’avevo con tutti. Ce l’avevo con noi, con me stessa che ero stata dentro un’operazione che stupidamente non avevo previsto sarebbe diventata una trappola, ce l’avevo con i miei compagni che non riuscivano a pensare come me che quello era un atto mostruoso che avrebbe segnato l’inizio della fine, ce l’avevo con lo stato che aveva abbandonato Moro, ce l’avevo con i suoi compagni di partito, con il Pci che aveva immediatamente imposto sin dall’inizio la fermezza, ce l’avevo con la ragione rivoluzionaria e la ragion di stato, che erano i due poli di questa tragedia e paradossalmente mi sentivo solidale in quel momento solamente con Moro e con la sua famiglia”.
“Non l’ho vissuta come una sconfitta personale – precisa -, cioè intesa come quella di una singola persona. Era più la sconfitta dell’idea che si potesse tenere insieme umanità e lotta armata. Quella era veramente il segno che questa cosa non era possibile. Ma in quel momento non potevo esprimere la mia dissociazione: il sentimento dominante era l’assoluta solitudine, sentivo nemico lo Stato ancora e non era ancora maturato un mio totale distacco dai miei convincimenti rivoluzionari. Mi ero già dissociata nel mio intimo: non dando ragione allo Stato che aveva abbandonato Moro, ma all’umanità, che era il mio principio ispiratore”.