“What’s your name?”. David. Ma non faccio in tempo ad aggiungere altro che un agente di polizia del servizio di vigilanza all’interno del Centro di prima accoglienza e soccorso viene a chiedere di vedere le foto scattate qualche istante prima. E’ una giusta questione di privacy, per il rispetto e l’incolumità dei migranti, che sono tutti richiedenti asilo. Un rapido controllo, non c’è alcun viso ritratto. In giro, per la città, forze dell’ordine non se ne vedono, eccezion fatta per tre vigili urbani che camminano lungo il corso. Il sindaco Ammatuna lo ha ribadito al prefetto: “Occorre che ci siano, anche per dare sicurezza alla gente”. Sono le tredici del primo novembre, ma per i quattrocentocinquanta migranti presenti nell’area portuale non è differente dagli altri giorni. Sono fuori, in attesa del pranzo. Qualcuno lo prende e lo porta via, preferisce ad andare a mangiare in giro. C’è chi gioca a pallone, chi siede fuori, sugli scogli, a guardare un mare di un autunno che non vuole iniziare. L’atmosfera è tranquilla, ma non occorre uno zoom per dare un’occhiata all’interno della struttura. I materassi sono distesi per terra, incollati l’uno accanto all’altro. Fuori, sul muro di cinta sul quale svetta l’enorme cancellata, vi sono ammassati pantaloni, magliette, mutande e calze. Asciugano in fretta con i quasi ventisette gradi che al sole arrivano a picchiare forte. In quel porto, da giugno ad oggi, sono arrivate circa cinquemila persone. “No, no, io sto uscendo di mattina che c’è il sole. Di sera non esco, no con la bambina, figurati”. Una giovane donna italiana, con la bimba di qualche anno, cammina lungo il corso, nei pressi della Torre Cabrera. Al suo interlocutore racconta la paura di uscire perchè in giro ci sono gli immigrati. Qualcuno ha raccontato di acquisti non pagati, qualche altro di un bagno nudi o di qualche avance ad una ragazza. Poco più in là, una donna di mezza età commenta. “Io non ho mai avuto problemi, anzi salutano e sono gentili. Se ce n’è qualcuno che magari esagera è nella norma, anche tra i nostri ragazzi, su settecento, ce ne sono alcuni storti”. “Stuorti”, irrispettosi o fuori dagli schemi, insomma. “Mi hanno detto che in qualche posto sono entrati e non hanno pagato. Ma a me non è mai successo”. Rispondono così in due o tre esercizi. Al mercato della zona di Raganzino gli stranieri sono tanti, ma molti di loro sono i titolari dei posteggi ambulanti. I migranti stabili. Poco più in là gli altri, quelli sbarcati in queste settimane, parlano tra di loro. Se li fissi un attimo salutano: “Ciao”. Se poi parli un po’ d’inglese, gli si illuminano gli occhi. Raccontano di loro e della loro avventura, vogliono sapere come funziona qui e se c’è lavoro. In disparte uno di loro prende in mano una pagina stropicciata di un quotidiano. “Provo a capire almeno dove sono”, confida in un inglese impeccabile. L’Italia? “L’ho studiata all’Università. Pure il latino, la vostra filosofia. Ma la guerra…”. Sorride, e va via. E’ l’ora del pranzo. La strada è dritta verso il porto, dove i barconi sequestrati conservano i ricordi di traversate che hanno sfidato la morte. Adesso, loro, sfidano il tempo, infinito, per una risposta ad una richiesta d’asilo.
Chi sono: tutti giovani, poco più che ventenni
Di siriani ne è rimasto soltanto uno. Sono tutti andati via. Non pochi spiegano che nei primi tempi hanno preferito mezzi privati, con “tariffe” non proprio concorrenziali. Quando hanno scoperto che potevano prendere un bus di linea per Catania con pochi euro, hanno fatto la fila alla fermata dell’Ast. Chi affolla il centro dell’area portuale ed il palazzetto dello sport sono i giovani dell’area subsahariana. In totale ci sono attualmente 678 migranti, 450 nella struttura a fianco al porto, 228 alla “palestra”. Tutti uomini, ad eccezione di diciannove donne tutte ospitate nella struttura sportiva. Età media 22-23 anni. Ognuno, al momento dello sbarco, ha ricevuto un braccialetto. Può entrare ed uscire dal centro quando vuole, eccezion fatta per la sera quando è previsto il rientro. Ma il controllo non è ferreo, non è una situazione con restrizione delle libertà individuali. I pasti vengono portati al mattino, a pranzo e a cena da una ditta che ha vinto un appalto. Costo per i tre pasti quindici euro per ogni migrante, al giorno. Altre quindici euro circa, invece, servono per la fornitura del materiale, qualche scheda telefonica, il vestiario. Vi lavorano circa ottanta persone, operatori retribuiti, mentre al momento dello sbarco collaborano anche i volontari.
Il sindaco Ammatuna: “Aiutateci a gestire l’emergenza”
Lo ha scelto probabilmente perchè costava poco, ma soprattutto perchè era in inglese. “The Canterville Ghost”, Oscar Wilde. “Costava sei euro, ma i soldi non li aveva. La titolare della libreria, una mia amica, gli ha risposto di non preoccuparsi. Poteva prenderlo e portare i soldi domani. Gli si sono illuminati gli occhi, evidentemente quel gesto di stima lo ha reso felice. Ma ha preferito di no. E’ tornato un po’ dopo ed ha portato tre euro, ha lasciato un acconto”. Marianna De Gregorio è un giovane medico abruzzese, da qualche giorno vive a Pozzallo. Laureata a Bologna, nella sua tesi sulla psichiatria, oltre alla sua passione civile, l’ha portata a conoscere da vicino il mondo dell’immigrazione. E’ lei a raccontare quell’episodio che dimostra un’altra storia, quella di un giovanissimo migrante che esprime il desiderio di queste persone costrette ad attendere troppi mesi prima di ricevere una risposta alla loro richiesta di protezione umanitaria. “Un periodo di frustrazione – spiega Marianna – in cui sono costretti a non fare nulla”. Le polemiche scoppiate in questi giorni, con qualcuno che denuncia casi di poca civiltà da parte di qualche migrante, lasciano perplessa una giovane studentessa, Cinzi Agosta, che del circolo “Don Puglisi – Impastato” di Pozzallo. “E’ un’idea distorta – spiega -. Chi ascolta queste cose pensa poi che succeda chissà che qui da noi. E invece non è così. Se magari alcuni gesti sbagliati li compie uno del posto non c’è alcun problema. La questione si solleva se sbaglia qualche immigrato, si tira fuori la storia del: a casa nostra fanno queste cose. Ma che senso ha?”. Il sindaco, Luigi Ammatuna, ha lanciato un appello alla Prefettura e ai Comuni. “Non basta – dice – la solidarietà a parole. Occorre che ognuno ci dia una mano. Ed invece non ho ancora ricevuto nessuna disponibilità”. La richiesta è quella di spostare in altre strutture della provincia una parte dei migranti. “Una tendopoli? Magari nel campo sportivo di Pozzallo, così ai settecento che abbiamo ne aggiungeremo poi altri” – risponde il primo cittadino sull’ipotesi di realizzare una struttura mobile.