La tradizione del Carnevale di Modica

304

“Nel Solco della Tradizione”, il progetto cittadino destinato alle scuole che da diversi anni ormai avvicina i bambini alle radici della propria identità, attraverso tappe significative come il Natale e il Carnevale, quest’anno ha invitato i piccoli delle scuole della città a riscoprire “L’Antico Carnevale di Modica”. Il prezioso testo di Serafino Amabile Guastella, è stato riproposto ai bambini come un racconto su cui studiare, su cui esercitare un po’ di fantasia e attraverso cui scoprire che, oltre alle maschere tradizionali – da Arlecchino a Pulcinella – esiste anche una maschera tutta modicana: la Vecchia di li Fusa.

 

Come è stato spiegato oggi in conferenza stampa, anche quest’anno la scelta è stata quella di dare al Carnevale un valore culturale, oltre che sociale. Le precedenti edizioni – che hanno avuto come temi Pinocchio, Peter Pan, Alice nel Paese delle Meraviglie e infine, lo scorso anno, “Orchi, orchesse, principi e principesse” – hanno consolidato un percorso didattico che aggiunge al Carnevale il senso della consapevolezza e della condivisione.

Il tema di quest’anno è “Tra sacro e profano”: “E questo ci porta, dopo l’intenso momento del Natale – ha spiegato la responsabile del progetto Concetta Spadaro –,a vivere insieme ai bambini il momento ludico”.

 

La festa dei bambini e delle loro famiglie si farà in piazza Matteotti, domenica 10 febbraio, a partire dalle ore 17: l’animazione sarà curata dal LudOratorio di Modica Alta.

 

Gli assessori alla pubblica istruzione, Tato Cavallino, e alla Cultura, Anna Maria Sammito, hanno sottolineato la volontà di programmare anche quest’anno – nonostante le difficoltà economiche e qualche ritardo – un momento ormai fortemente atteso dalle famiglie.

 

 

 

 

 

Di seguito, il testo del racconto de “La Vecchia di li fusa”, riadattato dall’insegnante Dada Iacono per i bambini:

 

 

Erano i giorni di carnevale e tutto il Paese era in subbuglio: nelle case, al mattino, si preparava il sugo e la cotenna di maiale e si torceva il collo alle galline per il martedì grasso.

 

Nel pomeriggio le donne sedevano fuori dalla porta, nelle ore in cui era possibile cogliere un po’ di luce, tutte intente a fare la calza o a pettinare i loro marmocchi e nel mentre si rimandavano, a guisa di razzi, una sfuriata di scioglilingua.

Gli uomini, invece, si radunavano nelle taverne bevendo vino, nel tocco alla papalina, e intonando strane filastrocche create su misura a mo’ di presa in giro.

Erano dunque i giorni di carnevale che assumevano, proprio in quella Contea, un nome particolare; la domenica, il lunedì e il martedì venivano preceduti dal termine sdirri così da formare sdirrumìnica, sdirriluni e sdirrimarti, ed era in quel tempo che nel paese si aggirava una strana figura, purtroppo a tutti nota, pronta a sbucar fuori nei giorni carnascialeschi.

Si racconta che viveva in un’introvabile caverna, intenta a far la guardia a immensi tesori e pronta a percorrere le vie nei giorni di carnevale col suo passo sgraziato e assai veloce. Tutti sapevano che era meglio evitarla, tanto era brutta e maligna e tutti se ne tenevano lontano, tutti tranne i bambini che giocavano per le stradine…

Questa strana figura, era conosciuta come la Vecchia di li fusa: era assai scura in volto, con uno sguardo feroce che bucava gli occhi di chi la guardava. Aveva un naso lungo e ricurvo e centinaia di rughe le percorrevano la fronte bitorzoluta. I suoi capelli erano lunghi e grigi, sporchi e appiccicati, coperti da un sinistro velo scuro. La Vecchia di li fusa, veniva chiamata così perché teneva stretto, tra le lunghe mani dalle lunghe unghie, un bioccolo di lana nera che filava senza smettere un sol momento, con il suo fuso, ben nascosto tra le pieghe della lunga gonna nera.

Gli anziani del paese, seduti davanti ad un braciere di carbone acceso, raccontavano che con quel filo la vecchia tesseva il destino degli uomini e degli eventi – come il carnevale, costretto a morire per il fuso della strega – e che nessuno mai era riuscito a spezzarlo. I bambini ascoltavano il racconto dei nonni e si sentivano freschi e coraggiosi pronti a fantasticare sul come rubare il fuso di quella Baba Yaga.

Una volta, proprio nel giorno di sdirrimarti, nelle primissime ore del pomeriggio, mentre tutti schiacciavano un pisolino, la Vecchia di li fusa, si aggirò col suo passo svelto lungo le viuzze della città che sembrava deserta: nessuno per le strade, non si sentiva neanche il vociare di quegli odiosi monelli che guizzavano come anguille.

 

Possibile che siano tutti spariti, dove si saranno cacciati!”

 

mormorò tra sé e sé la Vecchia che con le sue scarpe – lunghe e scalcagnate – si mosse svelta e allo stesso tempo cauta, affacciandosi di tanto in tanto ad una finestrella di quelle case che sembravano mute. In una stanzetta poco illuminata c’erano le galline che gironzolavano e pure l’asino stipato dentro, che si riposava dal carico; c’era la scala di legno appoggiata in equilibrio al soppalco dove dormiva l’intera famiglia.

La Vecchia di li fusa si affacciò in una, due, tre casette troppo anguste per lei, abituata alla sua enorme caverna. Nessun rumore dei mocciosi e intanto, quasi d’instinto, continuava a filare con il fuso il triste filo nero.

Ma lo sdirrimarti era il giorno degli scherzi e delle prodezze e questo ben lo sapevano i monelli dei quartieri che si erano riuniti nel sagrato della Chiesa Madre per tendere un agguato alla Vecchia e rubarle il fuso; perché loro non erano come i nonni, loro non avevano paura!

Così mentre la Vecchia di li fusa si aggirava per le stradine trascinando le scarpacce vecchie, la gonna tanto lunga quanto larga, la mantella che teneva legata al collo e che sbatteva come mossa da un vento solitario, da tutti i vicoli, dai muri ’a siccu e dalle cannalate lungo i muri delle case, un fiume di bambini si riversò sulla strada gridando e accerchiando la Vecchia.

 

ti abbiamo presa brutta vecchiaccia! Facci vedere cosa tieni nascosto!” – urlarono i monelli tirandole la mantella scura.

andate via! Via! Via!” urlò con altrettanta foga la Vecchia.

 

I bambini si infilarono sotto l’ampia gonna in cerca del fuso, e tirarono di qua e di là con il cuore che batteva a mille, con la paura che quasi quasi gliela faceva scappare addosso, ma continuando a scalciare e gridare, sollevando polvere e pietruzze, con le mani che si allungavano verso il fuso.

Ma la Vecchia era molto forte, dotata di una forza magica, disumana e con uno strattone riuscì a liberarsi dalla presa e a scrollarsi di dosso i bambini, i quali, alzando gli occhi, incrociarono per un attimo lo sguardo feroce della Baba Yaga e in un baleno furono pronti a battere la ritirata.

Corsero fino al sagrato della Chiesa Madre e si sedettero sugli ampi scaloni per riprendersi dalla paura ed anche perché si sentivano un po’ sconfortati.

Non ci siamo riusciti!” –disse il più grande

Però le abbiamo fatto prendere un bello spavento!” – risposero alcuni.

Guardate, guardate tutti, qui nell’unghia!” – gridò il più piccolo mostrando al gruppo un pezzetto di filo nero sotto l’unghia del pollice.

Tutti i bambini guardarono il più piccolo, e poi si guardarono le mani; scoprirono, così, che ognuno di loro aveva un pezzetto di quel filo sotto le unghie, come un pezzetto di destino per sé e per il carnevale che avrebbe continuato ad impazzare negli anni. E allora, importava poco che la Vecchia corresse svelta verso la sua caverna stringendo il fuso, loro avevano un pezzetto di quel tesoro che avrebbero custodito per sempre.

 

La sera, conclusa la sfilata delle maschere, i bambini si riunirono accanto ai loro nonni, attorno ai bracieri accesi e raccontarono come quasi quasi stavano riuscendo a rubare il fuso della Vecchia, e raccontarono della loro conquista, di quel pezzettino di filo nero che custodivano gelosamente. Gli anziani, sorridendo sotto i baffi, si dimostrarono sbalorditi e fieri dei loro nipotini, i quali addirittura sembravano improvvisamente più grandi: in fondo lo scopo di ogni generazione era sempre lo stesso: tentare i confini della sorte.