Molto stretto o molto largo

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Perché “L’Imbuto”?

In realtà per il mio blog ho scelto il nome prima ancora di saperne il motivo (qui in redazione i miei colleghi mi hanno presa un po’ per picchiatella, biascicando un non-troppo-ironico “Cominciamo bene!” per commento).

Intuitivamente mi piaceva la metafora di quest’oggetto, che – a seconda del lato da cui lo si prende – può trasformarsi da molto largo a molto stretto, oppure da molto stretto a molto largo.

Allora devo inventarmi una buona spiegazione”, mi sono detta, come capita di tanto in tanto a certi pubblicitari a cui vengono le idee prima ancora dei ragionamenti. E mi sono messa a cercare.

 

Sulla Treccani c’è scritto che “imbuto” per estensione è un “nome spesso assunto a indicare oggetti o, in genere, conformazioni, andamenti che, all’inizio larghi e di forma più o meno circolare, si vadano a mano a mano restringendo”.  E su Wordreference c’è scritto che in inglese “imbuto” si può dire anche in senso figurato bottleneck: collo di bottiglia, strettoia.

Già questo comincia ad essere affine con una sensazione che tutti noi abbiamo in corpo, di questi tempi: la sensazione che ogni cosa che ci appartiene e noi stessi stiamo – appunto – finendo in un imbuto.

Non solo l’economia e la politica, ma soprattutto il nostro futuro, la nostra possibilità di immaginarci domani, di fare un progetto di vita individuale e collettiva, di dare respiro e coraggio alle nostre aspirazioni: ad un tratto ci hanno preso di forza tutto quello che vedevamo chiaramente davanti a noi e lo hanno infilato in questa strettoia dalle pareti buie.

Tra noi che condividiamo questa sorte, possiamo confessarci tranquillamente che non abbiamo la più pallida idea di come fare ad uscirne; né siamo in grado di indovinare quanto, di tutto quello che avevamo prima, non sarà troppo grande e troppo ingombrante da riuscire effettivamente a passare dall’altra parte.

 

Ho trovato, a tal proposito, che c’è persino una teoria socio-economica che usa la similitudine dell’imbuto per spiegare le conseguenze dei limiti ambientali e della necessità di prestare attenzione a uno sviluppo sostenibile (come se tutto il genere umano fosse versato nell’imbuto e le pareti rappresentassero l’una l’offerta decrescente delle risorse naturali e l’altra la domanda e dunque il consumo crescente di queste risorse).

 

Ho trovato che nel dizionario dei sogni l’imbuto ha il significato di spensieratezza, ma questo non fa granché al caso nostro.

Ho trovato pure che l’imbuto rovesciato sul capo, nel Medioevo era simbolo di follia (indimenticabile la citazione di questa accezione sulla testa dell’uomo di latta, nel mago di Oz) e questa forse è già più pertinente.

Mi sono ricordata – certamente – del rigorosissimo imbuto dell’Inferno di Dante e pure del terrificante “imbuto di cuoio” di Arthur Conan Doyle.

E soprattutto mi è tornata un milione di volte in mente, mentre masticavo in bocca questa parola, quella magnifica impresa linguistica – un monito per chiunque abbia l’occasione di scrivere – consigliata da Italo Calvino in una recensione a Natalia Ginzburg: “La poesia è sempre stata questo: far passare il mare in un imbuto; fissarsi uno strettissimo numero di mezzi espressivi e cercare di esprimere con quello qualcosa di estremamente complesso. Adesso la letteratura tende a dimenticare l’imbuto: si crede che si possa scrivere tutto, si crede che il mare possa essere espresso e comunicato in quanto mare, e non si comunica né mare né niente, solo parole”.

Bisogna ammettere che qualunque rigo in più sembrerebbe un sacrilegio.

 

Ma il vero motivo per cui volevo chiamare questo spazio “L’imbuto” è lo stesso per cui mi ritrovo a ripetermi in testa questa parola di continuo.

Una volta qualcuno mi ha messo in guardia, raccomandandomi di “non infilarmi in un imbuto” per dirmi di non chiudermi tra paraocchi e di non guardare le cose attraverso uno spioncino così limitante. Da allora mi sottopongo sempre a quest’esercizio e mi chiedo da quale lato dell’imbuto sto guardando il problema: se lo sto forzando in una prospettiva molto stretta o al contrario sto riuscendo ad inquadrarlo in un orizzonte che si apre fino a diventare molto largo.

 

Ecco, ci ho messo un po’ a spiegarlo, ma quest’ultima cosa è quella che vorrei fare qui dentro, più o meno ogni giorno a partire da adesso.

 

 

 

 

Post scriptum

A Modica – la mia città – c’è uno spazio che da sempre si chiama lo “Stretto”.

Un mio caro amico mi racconta sempre di essere rimasto colpito da un signore che una volta gli fece notare la beffarda contraddizione col fatto che lì vicino ci avessero appena fatto una piazza e l’avessero chiamata “Largo”.

Entrambe i luoghi, tanto fisicamente adiacenti quanto idealmente distanti, sembrano condannati – per il loro nome, la loro conformazione, la loro destinazione – ad essere oggetto di un continuo dibattito.

Non ci resta che augurarci che quest’ultimo, almeno, sia …molto molto largo.