L’Antimafia rituale e i protagonisti che la strumentalizzano

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Scriveva Gesualdo Bufalino che ‘la mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari’. Non a caso sulla scuola, soprattutto dopo la strage di Capaci, si sono concentrati politici, amministratori, intellettuali per far germogliare una nuova coscienza antimafiosa tra i ragazzi. Ma in questa stagione paradossalmente sono rimasti fuori proprio gli insegnanti che finiscono per assecondare ‘lezioni di legalità’ ma senza avere creato quell’humus necessario tra gli studenti che diventano sempre più attori passivi di un’antimafia di passerella che poco e nulla lascia nelle loro coscienze e nella loro cultura: non conta (solo) dare notizie su quella stagione di piombo ma, attraverso queste, fare formazione.

Accade così che, negli ultimi anni, su quell’onda commemorativa della strage di Capaci e della morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si moltiplicano iniziative, a volte anche goliardiche, che finiscono per non trasmettere alcuna lezione, per non dare alcun contributo alla causa. E’ un’antimafia rituale che si ripete stancamente senza alcuna funzione pedagogica e sociologica, salvo poi sorprendersi quando un sondaggio di Skuola.net rivela che il 51,7% degli studenti intervistati ammette di non sapere cosa sia accaduto nella strage di Capaci. Appena il 27% ne ha parlato a scuola e solo il 13% in famiglia.

L’Antimafia è un tema delicato e scottante e si rischia l’abiura quando si prova a criticarla. Si rischia di essere travolti e tacciati addirittura di contiguità con la mafia, soprattutto quando si toccano quei protagonisti che finiscono per strumentalizzarla. Chi non ricorda la feroce polemica che coinvolse anche Leonardo Sciascia quando nel gennaio 1987 in un articolo sul Corriere della Sera parlò di ‘professionisti dell’Antimafia’, attirando su di sé gli strali di Leoluca Orlando, sindaco di Palermo, e di altri intellettuali.

Sciascia criticava “l’antimafia di facciata, adoperata con abilità e spregiudicatezza”, che rischiava di diventare un formidabile strumento per fare carriera, per procurarsi il consenso del pubblico e acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa. Ne seguiva un’invettiva contro quei sindaci che marciano nei cortei antimafia, parlano ai raduni e nelle scuole e magari non si occupano dei problemi concreti delle loro città, ma che nessuno si sognerebbe mai di rimuovere, per via dei meriti acquisiti “in trincea”.

Quella critica è ancora attuale? A rivedere le cronache di questi ultimi giorni sembrerebbe proprio di sì. Perché si guarda al protagonismo personale piuttosto che al ‘cuore’ del problema che è – e resta – la crescita delle nuove generazioni che deve essere improntata ad una cultura di rispetto della legge e delle regole. A distanza di anni, anche la vedova di Borsellino ha riconosciuto che “Sciascia aveva capito tutto in anticipo”. Il carrierismo è un male serio: un egoismo insano proiettato sul successo professionale e la scalata del cursus honorum.

Vincere la mafia richiede lo sforzo di vincere due volte. Vincerla e staccarsene nettamente, schiacciarla affermando una superiore dignità, un primato morale. Non c’è bisogno di ‘professionisti dell’antimafia’ che enfatizzano ogni loro iniziativa ma di uomini dall’alto valore etico che quotidianamente – preferibilmente in silenzio – lavorano per combatterla. E non c’è di bisogno di quella ‘mafia dell’antimafia’, per dirla con Pierangelo Buttafuoco, che ritiene di essere l’unica depositaria per vincerla ma che finisce solo per ostentarla. C’è bisogno solo di ‘un esercito (convinto) di maestri elementari’.